No all’assegno di mantenimento per il coniuge che può svolgere attività lavorativa (Cass. Civ., ord dell’11 giugno 2018, n. 15166).
Con l’ordinanza n. 15166 dell’11 giugno 2018, la Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello territoriale, la quale aveva negato l’assegno di mantenimento al coniuge che ha “la possibilità di svolgere attività lavorativa, per avere esperienza pluriennale nel campo delle investigazioni private”.
La Corte ha tenuto a precisare che la valutazione di fatto effettuata dal giudice di merito circa l’idoneità del coniuge a svolgere un’attività lavorativa che gli permetta di essere economicamente autonomo sia assolutamente insindacabile in sede di legittimità.
La Cassazione, infatti, ha specificato che l’apprezzamento sulla sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno di mantenimento, così come la sua graduazione nel tempo, costituisce prerogativa del giudice del merito e non può essere oggetto di prova, in sede di legittimità, in ordine a fatti sopravvenuti che ne consentano la revisione.
La Cassazione conferma il diritto dell’ex coniuge a ricevere l’assegno divorzile anche se l’onerato ha una nuova famiglia da mantenere (Cass. Civ., ord del 13 giugno 2018, n. 15568).
Con una recente pronuncia la Corte di Cassazione ha ribadito il principio per cui l’assegno divorzile ha la ratio di consentire, al beneficiario che non sia economicamente autosufficiente, una “sopravvivenza dignitosa”.
Nel caso di specie, l’uomo, divorziato, aveva ottenuto una riduzione dell’assegno divorzile che era tenuto a versare da € 700 ad € 600 mensili. Eppure, aveva proposto ricorso per Cassazione al fine di vedere dichiarato il suo diritto a non corrispondere alcunché all’ex moglie in ragione del fatto che egli aveva creato un nuovo nucleo familiare e che una quota del proprio reddito era impiegata per il pagamento di un mutuo.
Ebbene, la Cassazione, ribadendo l’orientamento giurisprudenziale ormai definitosi negli ultimi anni (a partire da Cass.n. 11504/2017), ha tenuto a specificare che il diritto all’assegno divorzile permane allorchè: (i) il beneficiario – come nel caso di specie – percepisca un modesto reddito (circa € 600 derivante dalla collaborazione presso il ristorante di un parente), (ii) è gravato da un canone di locazione, (iii) non ha esperienze lavorative né qualificazione professionale che gli permetta, considerata anche (iv) l’età non più giovane, di reperire attività lavorative ben pagate o stabili.
Per tutti questi motivi, al fine di consentire all’ex moglie di condurre una “sopravvivenza dignitosa”, la Corte di Cassazione ha confermato la valutazione della Corte di Appello territoriale.
Si tratta di una pronuncia in linea con il ‘nuovo’ trend giurisprudenziale che ha dato una stretta agli assegni divorzili da capogiro ma non già alle situazioni riguardanti coniugi in difficoltà.
Il genitore deve rimborsare le spese straordinarie anche se non concordate con il collocatario prevalente del figlio (Cass. Civ., ord del 12 giugno 2018, n. 15240)
Con l’ordinanza sopra richiamata la Corte di Cassazione ha fatto una breccia al principio di necessaria condivisione delle spese straordinarie tra genitori separati. Nel caso in esame, si trattava delle spese relative al doposcuola per un minore, sostenute dalla madre, collocataria prevalente.
La Corte ha rigettato il ricorso, sottolineando come l’art. 337 ter c.p.c. consenta a ciascuno dei coniugi di intervenire nelle determinazioni concernenti i figli soltanto con riferimento alle ‘decisioni di maggiori interesse’. Per cui, negli altri casi, il coniuge non collocatario è tenuto al rimborso delle relative spese, a meno che non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso.
Poiché secondo la Corte d’appello tali ‘validi motivi di dissenso’, nel caso trattato, non sono stati opposti – e la valutazione sul punto è assolutamente insindacabile in sede di legittimità – la Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dal padre.
L’intento della giurisprudenza in esame sembra essere quello di dirimere l’annoso e crescente contezioso in tema di spese straordinarie tra coniugi ed ex coniugi. Resta da vedere se l’obiettivo, alla lunga, sarà centrato.
Corte di Giustizia UE: la nozione di «diritto di visita» comprende il diritto di visita dei nonni nei confronti dei loro nipoti.
Con la sentenza del 31 maggio 2018 resa nel caso C-335/17 Valcheva c. Babanarakis, la Corte di Giustizia di Lussemburgo si è pronunciata sull’interpretazione della nozione di “diritto di visita” ai sensi del regolamento Bruxelles II bis.
La vicenda ha origine dal ricorso presentato dinanzi alle giurisdizioni bulgare dalla Sig.ra Valcheva che chiedeva di poter vedere regolarmente il nipote un week-end al mese e di poterlo ospitare a casa propria due volte all’anno per un periodo di due o tre settimane durante le vacanze. I giudici bulgari di primo grado e di appello hanno respinto la domanda per proprio difetto di competenza, in quanto il regolamento Bruxelles II bis prevede la competenza dei giudici dello Stato membro nel quale il minore risiede abitualmente (nella specie, sarebbe competente la giurisdizione greca).
Adita in ultima istanza, la Corte suprema di cassazione della Bulgaria ha sospeso il giudizio con un rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo, ritenendo che, al fine di determinare il giudice competente, sia essenziale sapere se il regolamento Bruxelles II bis sia applicabile anche in relazione al diritto di visita dei nonni. La Corte di giustizia, nella sentenza in commento, afferma innanzitutto che la nozione di «diritto di visita» ai sensi del regolamento Bruxelles II bis deve essere interpretata in modo autonomo rispetto alla nozione fornita sulla base delle legislazioni nazionali.
Dopo aver ricordato che il predetto regolamento trova applicazione in tutte le decisioni in materia di responsabilità genitoriale e che il diritto di visita è considerato come una priorità, la Corte rileva che il legislatore europeo ha scelto di non limitare il numero di persone possibili titolari della responsabilità genitoriale o di un diritto di visita. Così, secondo la Corte dell’UE, la nozione di «diritto di visita» comprende non soltanto il diritto di visita dei genitori nei confronti del loro figlio minore, ma anche quello di altre persone con le quali è importante che tale minore intrattenga relazioni personali, segnatamente i suoi nonni.
Infine, relativamente alla questione della competenza, la Corte precisa anche che, al fine di evitare l’adozione di misure confliggenti da parte di giudici differenti, uno stesso giudice deve statuire sui diritti di visita nell’interesse superiore del minore. A tal proposito, la Corte ha affermato che, in linea di principio, il diritto di visita deve essere regolato dal giudice del luogo di residenza abituale del minore.
Corte di Giustizia UE: la nozione di «coniuge», ai sensi delle disposizioni del diritto dell’Unione sulla libertà di soggiorno dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari, comprende i coniugi dello stesso sesso.
Con la sentenza del 5 giugno 2018 resa nel caso C-673/16 Relu Adrian Coman e a. c. Inspectoratul General pentru Imigrări e a., la Corte di Giustizia di Lussemburgo si è pronunciata sull’interpretazione della nozione di “coniuge” ai fini dell’applicazione delle disposizioni europee sulla libertà di soggiorno dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari (cfr. Direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri).
I protagonisti della vicenda da cui è scaturita la sentenza in commento sono il sig. Relu Adrian Coman, cittadino rumeno, e il sig. Robert Clabourn Hamilton, cittadino americano, i quali – unitisi in matrimonio a Bruxelles nel 2010 – chiedevano alle autorità rumene la procedura e le condizioni con le quali il sig. Hamilton potesse ottenere, in quanto familiare del sig. Coman, il diritto di soggiornare legalmente in Romania per un periodo superiore a tre mesi.
In risposta a tale richiesta, le autorità rumene informavano il sig. Coman e il sig. Hamilton che quest’ultimo poteva godere soltanto di un diritto di soggiorno di tre mesi, poiché secondo la legislazione nazionale egli non poteva essere qualificato quale «coniuge» di un cittadino dell’Unione, posto che la Romania non riconosce i matrimoni tra persone dello stesso sesso.
I coniugi Coman – Hamilton proponevano, quindi, dinanzi alla giurisdizione rumena un ricorso diretto a far dichiarare l’esistenza di una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, in relazione all’esercizio del diritto di libera circolazione nell’Unione.
La Corte costituzionale della Romania, investita di un’eccezione d’incostituzionalità, operava quindi un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia circa l’interpretazione della nozione di “coniuge” per comprendere, nello specifico, se il sig. Hamilton potesse godere del diritto di soggiorno e di libera circolazione riconosciuto ai familiari dei cittadini dell’UE.
Con la sentenza in commento, innanzitutto, la Corte di Lussemburgo ha precisato che la summenzionata direttiva si applica solo in relazione al diritto di ingresso e di soggiorno di un cittadino dell’Unione – e dei suoi familiari anche extra-europei – in Stati membri diversi da quello di cui il cittadino UE ha la cittadinanza e non consente, quindi, di fondare un “diritto di soggiorno derivato” a favore di cittadini extra-europei, familiari di un cittadino UE, nello Stato membro di cui quest’ultimo possieda la cittadinanza. La direttiva non può, quindi, fondare un diritto di soggiorno a favore del sig. Hamilton in Romania, Stato membro di cui il sig. Coman possiede la cittadinanza.
Tuttavia, la Corte ricorda che il “diritto di soggiorno derivato” può essere riconosciuto a cittadini extra-europei, familiari di un cittadino UE, in forza dell’art. 21, par. 1, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Al riguardo, la Corte precisa che le condizioni per godere di tale diritto non possono essere più rigorose di quelle previste dalla direttiva per la libera circolazione dei familiari extra-europei in Stati membri diversi da quello di cui il cittadino UE possiede la cittadinanza.
La Corte afferma che, nell’ambito di tale direttiva, la nozione di «coniuge», che designa una persona unita ad un’altra da vincolo matrimoniale, è neutra dal punto di vista del genere e può comprendere, quindi, il coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione.
Pur rispettando la discrezionalità statale nell’adozione di norme relative al matrimonio ed in particolare al matrimonio omosessuale, la Corte UE afferma che gli Stati membri hanno l’obbligo di riconoscere, ai soli fini della concessione di un “diritto di soggiorno derivato” a un cittadino di uno Stato non-UE, un matrimonio omosessuale legalmente contratto in un altro Stato membro. La concessione di un “diritto di soggiorno derivato” al coniuge omosessuale di un cittadino UE lascia, inoltre, impregiudicata l’identità nazionale né può costituire minaccia per l’ordine pubblico dello Stato membro interessato.
La Corte ricorda, infine, che una misura nazionale restrittiva del diritto alla libera circolazione delle persone può essere giustificata solo se è conforme ai diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Dal momento che il diritto fondamentale al rispetto della vita privata e familiare è garantito all’art. 7 della Carta, nonché dall’art. 8 CEDU, la Corte di Giustizia afferma che la relazione che lega una coppia omosessuale può rientrare nella nozione di «vita privata», nonché in quella di «vita familiare», al pari della relazione che lega una coppia eterosessuale, così come è ormai consolidato anche nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.