L’Avv. Anton Giulio Lana in un’intervista al Times: “se respingeranno i migranti verso la Libia, ci sarà una violazione della Convezione europea dei diritti umani”.
Nel corso dell’intervista rilasciata al quotidiano The Times lo scorso 22 aprile, l’Avv. Anton Giulio Lana – nel contesto di Eunavformed con riferimento all’operazione ‘Sophia’ della marina militare italiana – ha dichiarato senza mezzi termini: «se respingeranno i migranti verso la Libia sarà una violazione della Convenzione europea sui diritti umani. Non ha importanza se avverrà in acque libiche». Oltre al danno rischiamo la doppia beffa. Ci sono problemi legali pure per arrestare gli scafisti ed i trafficanti o farli detenere e processare dai libici per lo scarso rispetto dei diritti umani e legali. In acque internazionali l’Italia, per prima, ha scelto la strada dell’assoluto «non respingimento». Nelle acque territoriali si sperava che accadesse il contrario, come auspica Londra, ma una sentenza europea ce lo vieta. Nel 2009 ben 200 somali ed eritrei, intercettati sui barconi a 35 miglia da Lampedusa, erano stati riportati al mittente e consegnati alle autorità libiche sotto il controllo, allora, di Muammar Gheddafi. L’operazione faceva parte del famoso trattato di amicizia italolibico. Il Consiglio italiano per i rifugiati aveva rintracciato in Libia 24 respinti, che erano stati trattenuti e maltrattati per diversi mesi nei centri di detenzioni libici. L’avvocato Lana aveva fatto ricorso presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, che nel 2012 ha condannato l’Italia e stabilito un risarcimento di 15mila euro a testa per 22 «respinti». In pratica il nostro paese avrebbe violato l’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti». Ed ai tempi di Gheddafi la situazione per i migranti era più umana delle barbarie attuali. Forse l’unica soluzione sarebbe di far riportare indietro i migranti alla guardia costiera libica, che al momento, però, non esiste come forza organizzata e spesso è in combutta con i trafficanti.
Per approfondimenti, l’articolo del Times è disponibile cliccando QUI.
Le dichiarazioni dell’Avv. Lana sono state riportate anche nell’articolo “La flotta europea antisbarchi? Non può combattere gli scafisti“, pubblicato su Il Giornale, lo scorso 24 aprile cliccabile QUI.
Adozioni internazionali , firmato il Protocollo di intesa tra la Commissione per le adozioni internazionali e l’Unione forense per la tutela dei diritti umani.
Nei giorni scorsi la Commissione per le adozioni internazionali, nella persona della Presidente, Cons. Silvia della Monica, e l’Unione forense per la tutela dei diritti umani, storica associazione il cui scopo è la promozione e la diffusione delle norme interne ed internazionali in materia di diritti umani, nella persona del suo Presidente, l’Avv. Prof. Anton Giulio Lana hanno firmato un importante protocollo che fornisce un sigillo formale ad una collaborazione già intrapresa nella complessa materia delle adozioni internazionali.
“Questo protocollo, che abbiamo fortemente voluto, mira a rafforzare il ruolo della Commissione quale istituzione a tutela del minore, soggetto portatore di diritti fondamentali da promuovere e fare affermare in ogni sede” ha affermato la Presidente della Commissione per le adozioni internazionali, Cons. Silvia della Monica, dopo la firma del Protocollo d’intesa.
“Abbiamo il grande piacere di avviare una collaborazione con la Commissione per le adozioni internazionali in questo importante settore in cui il rispetto dei diritti umani e la tutela dei soggetti più vulnerabili costituiscono un parametro di riferimento ineludibile”, queste le parole dell’Avv. Prof. Anton Giulio Lana,.
L’accordo ha lo scopo di garantire un maggiore approfondimento delle competenze, anche nella prospettiva comparatistica, in materia di adozioni internazionali, la diffusione e promozione della materia, attraverso il faro dell’interesse superiore del minore, nonché la creazione di una rete territoriale tra giuristi, magistrati, enti autorizzati e altri operatori del settore al fine di migliorare l’effettività dell’istituto dell’adozione internazionale.
Per raggiungere tali obiettivi, il protocollo prevede il rafforzamento di un Osservatorio sulla giurisprudenza europea in materia di adozioni internazionali, l’elaborazione di progetti formativi idonei a favorire la diffusione delle conoscenze in materia, specifiche missioni di studio atte a risolvere specifiche problematiche e infine la realizzazione di attività di reporting e monitoraggio internazionale sul rispetto della Convenzione de L’Aja del 1993, di cui l’Italia è parte.
La Cassazione penale assolve una coppia che ricorre alla maternità surrogata in Ucraina.
La Corte di Cassazione, Sez. V^ penale, con la sentenza n. 13525 del 10 marzo 2016, depositata in cancelleria in data 5 aprile 2016, ha affermato che non commette alcun illecito penale la coppia che si reca all’estero per tentare la c.d. procreazione assistita se, nel Paese in questione, la pratica è legale.
Due cittadini italiani si recavano in Ucraina per avere un figlio al fine di ricorrere alla cosiddetta maternità surrogata per il tramite una donna che acconsentiva a farsi impiantare gli spermatozoi dell’uomo insieme agli ovuli di una donatrice sconosciuta.
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli presentava ricorso per Cassazione lamentando la violazione dell’art. 12, comma 6, della L. n. 40/2004 “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, posto che gli imputati avevano consapevolmente taciuto al funzionario consolare dell’Ambasciata italiana di Kiev di avere fatto ricorso alla suddetta tecnica di procreazione assistita.
Ad avviso della Suprema Corte, anche se in Italia tale pratica rimane vietata, il ricorso all’utero in affitto in Ucraina non è perseguibile e la coppia italiana che se ne avvale non commette reato.
Deve, inoltre, ritenersi lecita la richiesta di trascrizione dell’atto di nascita redatto dai pubblici ufficiali ucraini, che indica la coppia come genitori del bambino.
Ad avviso della Cassazione, dunque, la coppia deve essere assolta in considerazione delle oscillazioni giurisprudenziali circa la perseguibilità dei reati commessi da cittadini italiani all’estero perseguibili dai pm nel caso in cui, nello Stato estero in cui si realizzano, non siano considerati reati.
Nel respingere il ricorso proposto dal procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, la Suprema Corte sottolinea che è dirimente tenere conto della sentenza Contrada c. Italia, emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo il 14 aprile 2015.
Ed infatti, secondo il Supremo Collegio “l’art. 7 della Convenzione non si limita a proibire l’applicazione retroattiva del diritto penale a svantaggio dell’imputato, ma sancisce che, in maniera più generale, il principio della legalità dei delitti e delle pene – «nullum crimen, nulla poena sine lege» -, con la conseguenza che la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono”.
Per la Cassazione, inoltre, i coniugi non sono perseguibili neppure per non aver risposto alla richiesta del funzionario dell’ufficio consolare italiano di Kiev “di chiarire se si fossero avvalsi della procedura di surrogazione di maternità, all’interno del territorio ucraino”.
In proposito, i Giudici ritengono che un simile comportamento non può essere considerato alla stregua di una “falsa dichiarazione” punita dall’art. 494 del codice penale.
E non può essere considerata una “informazione falsa” il certificato con il quale la coppia ha riconosciuto all’anagrafe di Kiev di essere padre e madre naturali del bambino nato due giorni prima, il due settembre del 2014, con il quale, la mamma “in affitto”, concedeva l’autorizzazione affinché la coppia prendesse il neonato, “alla stregua della normativa ucraina vigente”.
Per questi motivi, i supremi giudici della Quinta sezione penale, hanno osservato che “alla stregua della incontroversa ricostruzione dei fatti (…) non è dato cogliere alcuna alterazione dello stato civile del minore nell’atto di nascita del quale si discute, che, al contrario, risulta perfettamente legittimo alla stregua della normativa nella quale doverosamente è stato redatto”.
Responsabilità medica: la Cassazione sul ‘danno da nascita indesiderata’.
In Italia sembrano sempre più numerosi i casi di responsabilità medica sottoposti al vaglio della Corte di Cassazione Civile. In particolare, recentemente la Suprema Corte si è occupata della mancata diagnosi della presenza di malformazioni del feto in grembo alla gestante. Le conseguenze di tale negligenza provocano, tra l’altro, in capo alla madre la perdita della possibilità di decidere o meno in merito all’interruzione della sua gravidanza con tutti i rischi e pericoli correlati.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6793 del 7 aprile 2016, si è espressa proprio in merito ad un caso concernente una “richiesta di risarcimento del danno da nascita indesiderata” avanzata in primo grado dai genitori della gestante, a cui nel corso della gravidanza non avevano diagnosticato la grave malformazione del feto comportando alla madre l’insorgenza di un pericolo di vita.
Nello specifico, i genitori della vittima avevano agito in primo grado di fronte il Tribunale di Roma per richiedere il risarcimento del danno all’Istituto sanitario deducendo “la responsabilità del personale medico della struttura sanitaria per il mancato accertamento e l’omessa informazione delle gravi malformazioni della nascitura (nello specifico poroencefalia), che aveva impedito l’esercizio del diritto della madre ad interrompere la gravidanza e causato sia alla nascitura che ai genitori gravi danni economici e sanitari“.
La domanda dei ricorrenti aveva trovato accoglimento sia in primo, che in secondo grado di giudizio.
La struttura sanitaria ricorreva in ultima analisi alla Corte di Cassazione: tra i motivi di ricorso, l’ospedale deduceva la grave difficoltà della prestazione richiesta agli ecografisti di identificare la malformazione del feto.
La Cassazione, in merito a tali deduzioni, confermava quanto precedentemente sostenuto in secondo grado ovvero: “all’esito di una puntuale disamina delle consulenze mediche di ufficio e di parte, la Corte d’Appello ha ritenuto sussistere negligenza e quindi colpa dei sanitari che effettuarono l’esame ecografico del marzo del 1992” considerando che erano passati cinque mesi dal momento del concepimento. Sulla base della semplice ecografia effettuata i medici “attestarono positivamente il normale sviluppo del feto pur in mancanza del necessario studio morfologico e sulla base di immagini ecografiche del tutto inidonee ad escludere anomalie del sistema nervoso“. La Cassazione precisa pertanto che: “è evidente che la natura stessa di siffatto inadempimento esclude implicitamente, ma chiaramente, la possibilità di ritenere sussistenti problemi di speciale difficoltà nella prestazione rimasta ineseguita. Con riguardo agli esami ecografici della 30^ settimana e della 37^ settimana, d’altronde, l’assoluta evidenza della rilevabilità delle malformazioni, in base alle immagini acquisite, attestata da tutti i consulenti tecnici, sia di parte che di ufficio, ha del pari impedito di ritenere sussistenti i presupposti per l’esonero dei sanitari che li effettuarono dalla responsabilità per colpa lieve.”
Concludendo, secondo la Cassazione i medici devono essere considerati responsabili dei danni arrecati alla gestante poiché hanno effettuato degli accertamenti inadeguati al fine di individuare anomalie del feto. I dottori, attraverso tale condotta negligente hanno messo a repentaglio la vita della gestante.
Sì all’assegno in caso di precarie condizioni economiche anche se il matrimonio è di breve durata (Cass. Civ., sez. VI, ord. 11 marzo 2016 n° 4797).
La mancanza di capacità lavorativa del coniuge, dovuta alla malattia, e l’esigua somma ricavata dalla pensione d’invalidità, legittimano l’attribuzione dell’assegno divorzile, anche se il matrimonio è durato solo due anni e il coniuge obbligato deve sostenere gli oneri derivanti dalla costituzione di un nuovo nucleo familiare.
La Corte di Cassazione – con ordinanza dell’11 marzo 2016, n. 4797 – ribadisce il principio ormai consolidato secondo cui la breve durata del matrimonio non è sufficiente ad escludere il riconoscimento dell’assegno divorzile.
Nel giudizio per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, alla moglie era stato riconosciuto un assegno mensile di 200,00 € sulla base dell’inadeguatezza dei mezzi economici propri e dell’impossibilità di procurarseli, poiché la donna era affetta da disturbo bipolare, a prevalente componente depressiva, che la rendeva assolutamente inabile allo svolgimento di un’attività lavorativa.
Il marito aveva appellato la decisione e la Corte territoriale aveva confermato l’attribuzione dell’assegno in favore della moglie, che percepiva unicamente una pensione d’invalidità di 275,00 €mensili, riducendo la misura dell’assegno a 150,00 € euro mensili basandosi su due ragioni: la breve durata del matrimonio (circa due anni) e la costituzione di una nuova famiglia da parte dell’uomo.
Quest’ultimo ricorreva, infine, in Cassazione che ha però dichiarato inammissibile il ricorso.
In particolare, i giudici hanno ritenuto che il peggioramento del tenore di vita della moglie rispetto a quello goduto in costanza di matrimonio, risultava, senza bisogno di accertamenti, dalla modesta pensione d’invalidità percepita dalla signora, rispetto allo stipendio fisso percepito dal ricorrente.
Quanto alla durata del matrimonio, la Cassazione ha ribadito il principio, per vero non nuovo nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui, nel divorzio, la durata del matrimonio non esclude necessariamente il diritto all’assegno.
Corso di specializzazione e approfondimento sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: moduli monotematici.
A partire dallo scorso 8 aprile, presso la Sala Seminari della Cassa Nazionale Forense, si tiene la seconda edizione del “Corso di specializzazione sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo”, organizzato dall’Unione forense per la tutela dei diritti umani (UFTDU) con il patrocinio del Consiglio d’Europa – Ufficio di Venezia e del Consiglio Nazionale Forense, che si articolerà in sette distinti moduli tematici della durata di sei ore ciascuno.
Il corso è volto all’approfondimento tematico della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), la quale è venuta assumendo negli anni un ruolo sempre più significativo nel contesto di 47 Paesi membri del Consiglio d’Europa, soprattutto in ragione dell’effettività della tutela dei diritti fondamentali apprestata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, organo giurisdizionale permanente con sede a Strasburgo, che vigila sul rispetto da parte degli Stati membri degli obblighi previsti dalla CEDU. È destinato ad avvocati, magistrati, praticanti avvocati, laureandi in giurisprudenza, operatori del diritto, rappresentanti delle ONG specializzate nel settore dei diritti umani, funzionari della pubblica amministrazione e, in generale, a tutti coloro che intendano conseguire una specializzazione nelle materie della CEDU. Le lezioni si tengono sino al 20 maggio, con la partecipazione di un massimo di 80 partecipanti.
Il programma e la scheda di sintesi del corso sono disponibili sul nostro sito.
Per maggiori informazioni, è possibile contattare il seguente indirizzo e-mail: [email protected].