Sangue infetto: il Tribunale di Roma condanna il Ministero della Salute a corrispondere circa € 900.000 a titolo di risarcimento danni per il contagio.
Lo Studio Lana Lagostena Bassi ha il grande piacere di segnalare l’ennesima pronuncia positiva ottenuta in materia di sangue infetto.
Con la sentenza n. 5302/2018, pubblicata in data 13 marzo 2018, il Tribunale di Roma ha condannato il Ministero della Salute a risarcire i danni non patrimoniali subiti dal danneggiato a causa delle patologie contratte a seguito della somministrazione di emoderivati infetti.
Il Tribunale di Roma ha quantificato il danno non patrimoniale in complessivi € 860.000,00, ritenendo che il Ministero debba risarcire non solo il danno biologico subito dall’attore ed accertato con consulenza tecnica d’ufficio in corso di causa, ma anche il più ampio “danno alla persona” (inteso come psico-fisico, morale e relazionale), nonché il c.d. danno da lucro cessante, considerato che a seguito della patologia contratta, l’attore – all’epoca, manager affermato di una nota azienda – ha dovuto rinunciare alla propria carriera professionale, dimettendosi dai propri incarichi, poiché la malattia non consentiva di mantenere lo stesso “ritmo di vita” tenuto fino a quel momento.
Come sempre, il risarcimento del danno non patrimoniale purtroppo non consente di restituire ai danneggiati ciò che hanno perso, ma rappresenta una reazione dell’ordinamento che si quantifica in via equitativa e si rende doverosa a fronte di eventi tanto lesivi della sfera individuale.
Nessuna deroga all’ordinario regime dell’affidamento condiviso, anche se la madre soffre di disturbi della personalità.
Con l’ordinanza n. 5096/2018, la Corte di Cassazione ha ritenuto manifestamente infondata la richiesta del padre volta ad ottenere l’affidamento esclusivo delle due figlie minori per incapacità genitoriale della moglie affetta da disturbi della personalità: per la Cassazione, la circostanza che uno dei genitori sia affetto da tali disturbi – che pur si manifestano con condotte aggressive e violente – non è di per sé sufficiente a giustificare una deroga al regime ordinario dell’affidamento condiviso dei figli. Tale regime infatti, come si legge nell’ordinanza, “non involge il rapporto quotidiano fra genitori e figli, ma rileva soltanto nelle sporadiche occasioni di decisioni di particolare importanza”.
Nel caso di specie, i giudici degli ermellini si sono pronunciati sul ricorso presentato da un padre contro il decreto della Corte di Appello de L’Aquila la quale, in riforma della p del Tribunale, aveva ripristinato il regime di affidamento condiviso.
La Suprema Corte, confermando la decisione assunta in secondo grado, ha ritenuto di non derogare all’ordinario regime dell’affidamento condiviso: in particolare, posto che i disturbi della donna e i suoi atteggiamenti violenti e aggressivi si manifestano soltanto in situazioni di grave stress, e che il rapporto quotidiano tra genitori e figli trova concretizzazione piuttosto nel collocamento, non si è ritenuto necessario modificare il regime di affidamento condiviso, che rileva soltanto nelle sporadiche occasioni di decisioni di particolare importanza. Decisioni che, nel caso di specie, possono essere assunte nonostante la patologia di cui la donna è affetta.
Rebus sic stantibus, i giudici della Corte di Cassazione hanno, dunque, ritenuto di collocare le piccole presso il genitore non affetto da disturbi della personalità e di disciplinare adeguatamente i loro incontri settimanali con il genitore affetto dalla patologia.
Per i giudici tanto è sufficiente a tutelare l’interesse superiore dei minori.
Post divorzio: chi convive rischia di perdere il diritto all’assegno di mantenimento.
Con la sentenza n. 4768/2018, la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla questione relativa alle conseguenze che una nuova convivenza potrebbe avere sull’assegno di mantenimento dovuto all’ex moglie.
Per i giudici della Suprema Corte è ammissibile – a seguito dello scioglimento del vincolo matrimoniale – il riconoscimento di un contributo economico nei confronti della ex moglie casalinga che si è sempre dedicata alla famiglia, la cui età avanzata le rende difficile riuscire a trovare un’occupazione. Tuttavia, precisa la Corte, in caso di relazione con un altro partner e di nuova convivenza, la concreta spettanza dell’assegno divorzile potrebbe essere messa in discussione.
Nel caso di specie, la Corte di Cassazione, Prima Sezione civile, si è pronunciata su un ricorso presentato dall’ex marito che si era visto condannare dalla Corte d’Appello di Roma al versamento di un assegno di mantenimento determinato in 800 euro mensili.
Con la predetta sentenza, i giudici della Corte Suprema hanno, invece, ritenuto meritevole di accoglimento il motivo con cui l’uomo lamentava che il giudice a quo non si fosse pronunciato sulla richiesta tempestivamente formulata di prova testimoniale avente ad oggetto la dimostrazione della sussistenza di una convivenza more uxorio tra la ex moglie e un altro uomo.
Pertanto, cassato il provvedimento impugnato, il giudizio è stato rinviato alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione: stante la relazione con un altro uomo, la concreta spettanza dell’assegno divorzile potrebbe dunque essere messa in discussione.
Il figlio che cambia sesso ha diritto al mantenimento per un periodo più esteso.
Con l’ordinanza n. 5883/2018, la Corte di Cassazione ha statuito che i figli che cambiano sesso possono avere diritto a essere mantenuti dai genitori per più tempo rispetto ai figli che non hanno problemi di identità sessuale: il giovane che affronta un cambio di sesso potrebbe trovarsi in una situazione di vulnerabilità e di difficoltà relazionale e psicologica. Di conseguenza, anche l’acquisizione di un’indipendenza economica dai genitori può risultarne influenzata. Pertanto, i figli che cambiano sesso potrebbero avere diritto a essere mantenuti per più tempo dai genitori rispetto a quelli che non riscontrano problematiche di genere.
Tuttavia ciò non vuol dire che il mantenimento possa protrarsi all’infinito: decorso qualche tempo da quando si è concluso l’iter di adeguamento dei caratteri sessuali, l’assegno può essere revocato.
Dunque, un periodo di grazia non illimitato ma temporaneo.
Pertanto, dopo aver affermato il suddetto principio, i giudici della Cassazione hanno stabilito altresì che il periodo di tolleranza va individuato in un triennio, trascorso il quale ciascuno deve provvedere al proprio mantenimento, quale che sia la propria identità sessuale e quale che sia il conflitto ancora eventualmente esistente e i problemi che ne possano derivare.
Nel caso di specie – premesso che in primo grado il figlio aveva ottenuto il riconoscimento del diritto a percepire l’assegno di mantenimento ma in appello tale diritto era stato revocato in considerazione della raggiunta età di trent’anni del giovane – i giudici della Corte di Cassazione, dopo aver statuito che la situazione di vulnerabilità connessa con l’adeguamento dell’identità sessuale potrebbe giustificare il mantenimento per un periodo più esteso del normale, non hanno ritenuto più giustificato, nel caso di specie, il mantenimento e hanno quindi accolto il ricorso del padre che chiedeva di essere esonerato dal versamento periodico dell’assegno al giovane, dacché erano trascorsi oltre tre anni dal cambio di sesso e il figlio aveva ormai raggiunto i trent’anni di età.
Doppia condanna della Turchia da parte della Corte europea per gli arresti arbitrari di due giornalisti in seguito al fallito golpe.
Con le sentenze Mehmet Hasan Altan c. Turchia e Şahin Alpay c. Turchia, deliberate in data 20 marzo 2018, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato le autorità turche per aver violato l’art. 5 CEDU (che sancisce il diritto alla libertà e alla sicurezza), e l’art. 10 CEDU (che tutela la libertà di espressione).
Il caso riguardava due giornalisti che erano stati arrestati nella prima ondata di repressione seguita al tentato golpe del 2016.
Uno dei ricorrenti, Sahin Altan, giornalista televisivo, è tuttora in carcere con una condanna all’ergastolo comminata lo scorso 16 febbraio, sebbene una sentenza della Corte costituzionale turca ne avesse chiesto la scarcerazione l’11 gennaio, per la violazione del diritto alla libertà di stampa del ricorrente nonché del suo diritto alla libertà e alla sicurezza (malgrado la notifica della deroga all’applicazione della Convenzione europea da parte del governo Turco nel 2016). La decisione della Corte costituzionale era infatti stata rigettata dalle corti penali inferiori che avevano così innescato una crisi giudiziaria senza precedenti.
L’altro ricorrente, Sahin Alpay, è un giornalista del quotidiano Zaman, chiuso dopo il fallito golpe dal governo poiché considerato vicino ai golpisti. Dopo l’intervento della Corte costituzionale anche in questo caso, e il rifiuto della Corte di appello di adeguare alle statuizioni della stessa, il sig. Alpay è stato rilasciato pochi giorni fa in un tentativo in extremis di evitare la decisione dei giudici di Strasburgo, dopo 20 mesi di carcere preventivo.
La Corte EDU ha anzitutto sottolineato che l’art. 15 CEDU, il quale prevede la possibilità di adottare misure temporanee di deroga alla Convenzione in caso di guerra o comunque di minaccia alla vita della Nazione, non attribuisce agli Stati un potere illimitato e del tutto discrezionale nell’applicazione della deroga alla Convenzione.
Nel merito poi, i giudici di Strasburgo hanno dichiarato la violazione dell’art. 5 CEDU, soffermandosi sugli effetti nefasti della detenzione di giornalisti sulla libertà di stampa. La suddetta detenzione non poi era giustificata da alcuna forma d’incitamento alla violenza né dalla commissione di atti terroristici da parte dei ricorrenti. Quanto alla violazione dell’art. 10 CEDU, i giudici hanno ribadito la giurisprudenza costante sul punto, ricordando che una democrazia deve favorire il dibattito pubblico, mentre la detenzione di un giornalista ha il sicuro effetto di intimidire e silenziare le voci dissenzienti.
Inoltre, la critica al governo e la pubblicazione di informazioni considerate dai leader di un paese come un pericolo per gli interessi nazionali non dovrebbero essere sanzionate attraverso il ricorso a figure di reato particolarmente gravi quali l’appartenenza o la complicità con un’organizzazione terroristica, il tentativo di rovesciare il governo o l’ordine costituzionale o la diffusione di propaganda terroristica.
Interessante come la Corte EDU, per la prima volta, abbia espresso dubbi sulla circostanza che la Corte costituzionale turca possa ancora essere considerata un rimedio legale efficace nell’ordinamento turco, riservandosi di esaminare da vicino il lavoro di suddetta Corte costituzionale e il rispetto delle sue decisioni da parte degli altri organi statali.
L’Unione forense per la tutela dei diritti umani celebra il suo cinquantesimo anniversario (Roma, 18 maggio 2018).
In data 18 maggio 2018, l’Unione forense per la tutela dei diritti umani celebrerà il cinquantenario della fondazione, avvenuta nel lontano marzo 1968 ad opera di illustri giuristi, quali Giovanni Conso, Giuliano Vassalli e Mario Lana, con un convegno dal titolo “Diseguaglianze e diritti umani”.
In occasione di tale evento, organizzato presso l’Aula Magna della Corte di Cassazione dalle ore 14:30 alle ore 18:30, saranno presenti – tra gli altri – Giovanni Mammone, Primo Presidente della Corte di Cassazione, Francesco Caia, Presidente della Commissione diritti umani del Consiglio Nazionale Forense, Anton Giulio Lana, Presidente dell’Unione forense, Alfonso Celotto, Professore di diritto costituzionale nell’Università Roma Tre, Filippo Donati, Professore di diritto costituzionale nell’Università di Firenze, Chiara Favilli, Professoressa di diritto dell’Unione europea nell’Università di Firenze, Fausto Pocar, Professore emerito di diritto internazionale nell’Università degli studi di Milano, Lucia Tria, Consigliere della Corte di Cassazione, Claudio Zanghì, Professore emerito di diritto internazionale nella Sapienza Università di Roma. Nel corso dell’evento sono state previste le testimonianze di Vito Mazzarelli, Vice Presidente dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani, Matteo Carbonelli, Vice Presidente dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani, Maurizio de Stefano, Componente del Direttivo dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani e di Bertrand Favreau, Presidente de l’Institut des droits de l’homme des avocats européens (IDHAE).