La Corte EDU condanna la Turchia per la morte di una donna a causa dell’errata somministrazione di un farmaco.
In data 30 giugno 2015, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato la Turchia per la violazione dell’art. 2 della CEDU (diritto alla vita) nel caso Altuğ e altri c. Turchia.
Il caso è stato portato all’attenzione della Corte dai parenti della signora Keşoğlu la quale, il 19 febbraio 2002, si era recata in una clinica privata lamentando pressione alta e persistenti dolori addominali.
A seguito della visita di controllo il personale medico aveva deciso di somministrarle un farmaco contenente penicillina per via endovenosa. L’iniezione provocava però una violenta reazione allergica con conseguente arresto cardiaco. I medici della clinica decidevano dunque di trasferirla al più vicino ospedale dove tuttavia, nonostante le cure, la donna decedeva il 25 febbraio 2002.
I parenti della donna hanno intrapreso un’azione civile e una penale, denunciando la clinica privata per negligenza medica e omicidio colposo. In particolare accusavano la clinica e il personale medico di aver somministrato un farmaco al quale la donna era allergica, pur essendo stati previamente avvertiti del pericolo di una reazione allergica dagli stessi parenti.
I tribunali nazionali, prendendo in esame le cartelle mediche e il referto dell’autopsia, concludevano che sebbene il decesso della donna fosse stato causato dall’iniezione di penicillina, pur tuttavia non si riscontrava alcuna responsabilità nell’operato del personale medico.
Esauriti i rimedi interni, i parenti della signora Keşoğlu ricorrevano alla Corte EDU, lamentando la violazione dell’art. 2 CEDU ed in particolare la mancata anamnesi della paziente ad opera del personale medico.
Proprio quest’ultimo aspetto, che è stato ritenuto dai giudici di Strasburgo fondamentale per la risoluzione della controversia, non era mai stato esaminato dai giudici nazionali.
L’anamnesi è, infatti, una procedura fondamentale per la corretta ricostruzione del quadro clinico del paziente. Essa prevede anche l’obbligo, a carico del personale medico, di informare il paziente o i suoi parenti sulla possibilità di una reazione allergica ad un farmaco, il quale può essere somministrato solo dopo aver richiesto e ottenuto il consenso del paziente.La Corte, quindi, pur non potendo entrare nel merito della controversia per valutare la responsabilità dell’equipe medica, ha condannato la Turchia per la violazione dell’art. 2 CEDU, riscontrando la mancanza, in ambito nazionale, “dell’efficacia necessaria a garantire una corretta applicazione della normativa in materia e un’adeguata tutela del diritto alla vita della sig.ra Keşoğlu”.
Un’altra condanna dei giudici di Strasburgo: “l’Italia riconosca le unioni delle coppie dello stesso sesso”.
L’Italia deve introdurre il riconoscimento legale per le coppie dello stesso sesso. Così ha deciso lo scorso 21 luglio la Corte europea dei diritti dell’uomo chiamata a pronunciarsi nel caso Oliari e altri c. Italia.
I giudici di Strasburgo hanno condannato all’unanimità il nostro Paese per la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 CEDU) di tre coppie omosessuali guidate da Enrico Oliari, presidente di Gaylib – l’associazione nazionale dei gay liberali e di centrodestra – le quali, pur convivendo da anni, si sono viste rifiutare le pubblicazioni dai propri Comuni di residenza.
I precedenti della Corte in materia sono numerosi: nel 2013 i giudici di Strasburgo avevano condannato la Grecia nel caso Vallianatos e altri c. Grecia poiché consentiva il riconoscimento delle unioni civili alle sole coppie eterosessuali; stessa condanna per l’Austria nel 2010 nel caso Schalk e Kopf c. Austria.Adesso è il turno dell’Italia, uno dei pochi paesi che non ha ancora previsto alcun tipo di riconoscimento delle unioni di persone dello stesso sesso.
La Corte condanna l’Italia per questo vuoto normativo affermando che “la tutela giuridica attualmente in vigore in Italia per le coppie omosessuali non solo fallisce nel provvedere ai bisogni chiave di una coppia impegnata in una relazione stabile, ma non è nemmeno sufficientemente affidabile”. E la condanna arriva proprio mentre in Senato l’iter della legge che riconosce le unioni civili – il cosiddetto ddl Cirinnà – è bloccato dal mancato arrivo di una relazione tecnica del Ministero dell’Economia sulla copertura finanziaria della legge.
Questa sentenza della Corte EDU costituisce una vittoria anche per l’Unione forense per la tutela dei diritti umani (UFTDU), da sempre in prima linea per garantire la corretta conoscenza delle norme a tutela dei diritti umani e promuoverne l’osservanza concreta ed effettiva in sede giurisdizionale, stragiudiziale, amministrativa e legislativa.
Proprio nel caso Oliari c. Italia, l’Avv. Anton Giulio Lana, Segretario Generale dell’Unione aveva contribuito alla presentazione, insieme ad altre cinque ONG e per tramite del network della FIDH, di una richiesta formale di autorizzazione a prendere parte come terzo interveniente nel processo, richiesta che era stata autorizzata. Nell’intervento si sottolineava, mediante un approccio comparato dei diritti umani sulla discriminazione sessuale, per quali ragioni la Corte avrebbe dovuto dichiarare le domande ricevibili e constatare nel merito la violazione della Convenzione europea.
Adesso non resta altro che aspettare e vedere cosa farà l’Italia. La sentenza di condanna, infatti, diverrà definitiva se entro tre mesi non verrà richiesto un rinvio alla Grande Camera per il riesame della controversia.
Cassazione: sì al cambio di sesso all’anagrafe anche senza operazione chirurgica.
La Prima Sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza del 20 luglio u.s., ha stabilito che per ottenere il cambio di sesso all’anagrafe non è necessario l’intervento di adeguamento degli organi sessuali.
Sonia Marchesi, in origine Massimiliano, aveva chiesto pima al Tribunale di Piacenza e, alla Corte d’Appello di Bologna poi, di poter cambiare sesso e nome all’anagrafe, pur non essendosi mai sottoposta all’intervento di adeguamento degli organi sessuali; entrambe le curie, tuttavia, avevano finito per respingere la richiesta in quanto, secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, la modificazione degli atti anagrafici è subordinata all’esecuzione del trattamento chirurgico sui caratteri sessuali primari.
Nella pronuncia dello scorso lunedì, i giudici di legittimità hanno invece sostenuto che “il desiderio di realizzare la coincidenza tra soma e psiche è, anche in mancanza dell’intervento di demolizione chirurgica, il risultato di un’elaborazione sofferta e personale della propria identità di genere realizzata con il sostegno di trattamenti medici e psicologici corrispondenti ai diversi profili di personalità e di condizione individuale. Il momento conclusivo non può che essere profondamente influenzato dalle caratteristiche individuali. Non può in conclusione che essere il frutto di un processo di autodeterminazione verso l’obiettivo del mutamento di sesso, realizzato mediante i trattamenti medici e psicologici necessari, ancorché da sottoporsi a rigoroso controllo giudiziario“.
In relazione alle conseguenze fisiche della donna legate all’eventuale sottoposizione all’intervento chirurgico, la Corte ha poi sottolineato come il trattamento, nel caso della ricorrente, “non solo non era necessario ma si rivelava anche dannoso per il timore radicato di conseguenze pregiudizievoli per la sua incolumità fisica, tenuto conto che negli anni, in conseguenza di numerosi trattamenti estetici ed ormonali, aveva raggiunto la piena armonia con il proprio corpo“.
Per la Cassazione, dunque, non è solo l’intervento chirurgico a determinare il cambio di sesso di una persona: la ricorrente, infatti, aveva rinunciato alla demolizione e ricostruzione chirurgica dei suoi organi genitali proprio perché aveva raggiunto nel tempo il proprio equilibrio psico-fisico.
A tal proposito occorre sottolineare come i Giudici, con questa “storica” pronuncia, abbiano aderito a quello che è il prevalente orientamento in ambito europeo in materia di diritto all’autodeterminazione, alla salute nonché all’integrità psichica e fisica della persona. Alla base della pronuncia dei Giudici della Cassazione si pone la Risoluzione n° 2048 dell’aprile 2015, emanata dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ed intitolata “Discrimination against transgender people in Europe”, oltre che la giurisprudenza in tema della Corte europea dei diritti dell’uomo, ed in particolare la recente sentenza del marzo 2015 nel caso Y.Y. c. Turchia, che ha censurato la scelta dello stato turco di imporre la sterilizzazione chirurgica ad una persona transessuale che chiedeva di poter cambiare sesso (vedasi in proposito la nostra newsletter n. 15).
Migranti, UE sui ricollocamenti: il primo accordo si ferma ben sotto l’obiettivo.
Saranno circa 32.000 i ricollocamenti dei migranti attualmente in Italia e Grecia. Questo è l’accordo raggiunto lo scorso 20 luglio a Bruxelles tra i 28 Paesi dell’Unione europea. Il piano iniziale della Commissione Europea ne aveva previsti circa 40.000 nei primi due anni, ai quali se ne sarebbero aggiunti nel tempo altri 20.000. Tra sei mesi è previsto un nuovo incontro per fare il punto della situazione e cercare di raggiungere l’obiettivo, ostacolato da alcuni Paesi che hanno dato una disponibilità di accoglienza inferiore alle attese.
La proposta dell’esecutivo UE organizzava la distribuzione dei richiedenti asilo secondo quattro criteri fondamentali, ciascuno con differente percentuale di incidenza: il Pil (40%), la popolazione (40%), la disoccupazione (10%) e gli sforzi fatti precedentemente dal Paese in materia di accoglienza (10%).
Tra i più fermi oppositori, la Spagna ha contestato il piano di riparto appena descritto poiché inadeguato rispetto all’alto tasso di disoccupazione del Paese. Gran Bretagna e Danimarca, già in precedenza, non si erano impegnate a cooperare, mentre Austria e Ungheria hanno rifiutato di farsi carico delle proprie quote. Al contrario, rispetteranno l’accordo: la Germania, che riceverà 10.500 rifugiati, la Francia 6.752 e i Paesi Bassi 2.047.
I primi ricollocamenti da Italia e Grecia cominceranno nel mese di ottobre e già a dicembre, è previsto un nuovo meeting tra i 28 Stati membri dell’UE, per verificare quanto è stato fatto e tentare di raggiungere un ulteriore accordo.
In quella sede, si auspica di poter assistere ad una rinnovata assunzione di responsabilità da parte dell’Unione Europea, non solo in nome della solidarietà che dovrebbe ispirare i rapporti tra gli Stati membri, ma soprattutto al fine di poter garantire a tutti i migranti meritevoli di protezione internazionale, attualmente bloccati in Italia e in Grecia, l’accoglienza e la tutela necessarie.
La Corte EDU torna a valutare il regolamento di Dublino e il sistema di asilo italiano.
Con due recenti sentenze datate 30 giugno e 7 luglio 2015 (V.M. ed altri c. Belgio; A.S. c. Svizzera), la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha confermato che la decisione di rinvio, ai sensi del Regolamento di Dublino, di uno o più rifugiati richiedenti asilo verso lo Stato membro di primo ingresso deve avvenire nel rispetto dell’Art. 3 CEDU.
La norma convenzionale sancisce, infatti, in termini assoluti il divieto di porre in essere trattamenti inumani e degradanti in questi casi. I richiedenti asilo erano rispettivamente un nativo Siriano che aveva fatto domanda di protezione internazionale in Svizzera e una famiglia di origine rumena residente in Serbia che aveva fatto richiesta in Belgio. A seguito del rigetto delle rispettive domande, ai medesimi veniva intimato di lasciare il paese (in cui risiedevano) e di ritornare nello stato di primo ingresso, ritenuto competente a giudicare la loro richiesta di asilo ai sensi del Regolamento di Dublino. Nei due casi di specie, entrambi i ricorrenti lamentavano che l’ordine di allontanamento forzato configurava una violazione nei termini in cui li metteva a rischio di subire trattamenti inumani e degradanti.
In particolare, nel caso contro la Svizzera, la Corte di Strasburgo era investita della questione di esaminare le condizioni di accoglimento dello stato di presa in carico, ossia l’Italia. L’organo giudicante ha osservato, confermando sul punto il precedente del caso Tarakhel c. Svizzera dello scorso novembre, come il nostro paese non sia in grado, per lo più, di fornire adeguate garanzie di tutela per alloggio e assistenza ai rifugiati. Tuttavia, la Corte ha ripetuto che tale condizione non giustifica un divieto di rinvio di rifugiati sul territorio italiano in termini assoluti e che è necessario un esame preliminare sul caso di specie e sul sistema di accoglimento dello stato ricevente in generale. Con tali premesse e sulla base dell’assenza di prove sufficienti o di circostanze eccezionali che dimostrassero l’impossibilità, per il Sig. A.S., di sottoporsi in Italia alle medesime cure mediche ricevute in Svizzera, la Corte Europea ha questa volta rigettato il ricorso, negando pertanto che l’allontanamento dello stesso dal paese concretizzasse una violazione dell’art. 3 CEDU.
Diverse sono invece le considerazioni nel caso che vedeva il Belgio come Stato convenuto. La Corte, ai fini di verificare la sussistenza di una violazione dello stesso ai sensi dell’art. 3 CEDU, ha analizzato le condizioni di vita alle quali i ricorrenti erano stati sottoposti a seguito dell’ordine di abbandonare il paese. Il provvedimento aveva già ottenuto una sospensione e una proroga a causa della gravidanza della donna e la condizione di disabilità della figlia maggiore ma, scaduto il termine, gli stessi erano stati espulsi e pertanto costretti a vivere, per quattro settimane, in condizioni di estrema povertà presso la stazione di Bruxelles. Motivando la sua decisione sulle particolari condizioni di vulnerabilità della famiglia e sulla totale mancanza di prospettive di miglioramento per i ricorrenti, la Corte ha concluso che tali criteri erano di per sé sufficienti a identificare una violazione dell’art. 3 CEDU, configurandosi nella specie un trattamento inumano e degradante.
Con tali decisioni i giudici della Corte Europea hanno evidenziato ancora una volta come le condizioni di vita del rifugiato risultino costituire il parametro di giudizio nel bilanciamento tra il ristretto margine di apprezzamento dello Stato, legittimato (in base al principio di sovranità) a controllare l’ingresso e l’espulsione di stranieri dal suo territorio, e il preponderante interesse del richiedente asilo a non esser vittima di una violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti ai sensi dell’art. 3 CEDU.
Summer School sulla “Tutela europea dei diritti fondamentali”.
L’Unione forense per la tutela dei diritti umani (UFTDU), in collaborazione con l’European Inter University Centre for Human Rights (EIUC) ha organizzato una Summer School sulla “Tutela europea dei diritti fondamentali”, che si sta svolgendo in questi giorni a Venezia (presso la suggestiva Isola di San Servolo), dallo scorso lunedì 20 luglio a domani, venerdì 24 luglio 2015 (dalle ore 09:30 alle ore 16:30), per una durata complessiva di 30 ore.Si tratta di un’importante occasione per approfondire la tematica degli strumenti europei di protezione dei diritti umani (dalla CEDU alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e per analizzare il funzionamento delle Corti europee e la conoscenza della giurisprudenza in materia.
L’evento sta riscuotendo successo e interesse e si svolge con la partecipazione come discenti di avvocati, praticanti avvocati, neo laureati, studenti universitari, funzionari pubblici delle ambasciate e rappresentanti delle ONG specializzate nel settore dei diritti umani.
Tra i relatori, l’Avv. Anton Giulio Lana, il Prof. Enzo Cannizzaro, il Prof. Vittorio Manes, il Prof. Giuseppe Cataldi, il Prof. Andrea Saccucci, i referendari della Corte Andrea Tamietti e Roberto Chenal e tanti altri ancora.
Lo Studio Lana Lagostena Bassi Vi augura buone vacanze.
Nel ricordarvi che lo Studio resterà chiuso dal 10 al 23 agosto per la pausa estiva, è con piacere che tutti i membri dello Studio Vi augurano buone vacanze, con l’auspicio che possiate trascorrere giorni sereni per ripartire insieme a settembre con rinnovato vigore.
Buone vacanze a tutti!