Sangue infetto: il tribunale di Roma condanna il Ministero della Salute ad un risarcimento di oltre 1.500.000,00 euro. Un'altra importante vittoria.
Con la sentenza n. 20404/2016, il Tribunale di Roma ha inflitto al Ministero della Salute la condanna al risarcimento dei danni nei confronti dei familiari di un uomo deceduto nel 2002 a seguito delle infezioni da HCV e AIDS contratte in occasione di una trasfusione con sangue infetto.
“Ancora una volta, la giustizia punisce con una sentenza esemplare il Ministero per la negligenza in merito ai controlli sul sangue distribuito alle strutture pubbliche per uso terapeutico” – dichiara l’Avv. Prof. Anton Giulio Lana, difensore degli eredi dello sfortunato paziente.
“La somma stabilita dal Tribunale a titolo risarcitorio dimostra l’assoluta iniquità dei 100.000,00 euro riconosciuti in via transattiva dall’art. 27-bis della Legge n. 114/2014 a tutti i danneggiati attualmente in causa contro l’Amministrazione per i danni patiti a seguito del contagio da sangue infetto. Tale importo, ovviamente, viene rifiutato dai danneggiati che si affidano alle decisioni dei Tribunali nella speranza di una valutazione più conforme alle sofferenze effettivamente subite”, prosegue l’Avv. Lana.
“Purtroppo, l’odissea dei familiari, che pure hanno ottenuto dal Tribunale un serio ristoro alle sofferenze patite a seguito della perdita del loro caro, non è finita”, aggiunge l’Avv. Mario Melillo, codifensore dei soggetti beneficiari del risarcimento, “occorreranno infatti ulteriori iniziative giudiziarie per ottenere il pagamento, vista la grave prassi ministeriale di non prestare immediato e spontaneo adempimento alle decisioni dei giudici il che, tra l’altro, provocherà un ulteriore danno alle casse dello Stato a causa degli interessi che matureranno sulle somme non tempestivamente pagate”, conclude l’Avv. Melillo.
Roma, le famiglie contro il Comune: i genitori costretti a scegliere in via preferenziale gli asili comunali e non i convenzionati indipendentemente dalle proprie esigenze. Lo Studio Lana Lagostena Bassi impugna la delibera 50/2016.
Le famiglie romane, rappresentate dallo Studio Lana Lagostena Bassi hanno presentato un ricorso dinanzi al Tar Lazio contro la delibera 50/2016 istitutiva di un bando aggiuntivo per l’anno educativo 2016/2017 per l’iscrizione all’asilo nido.
La delibera impugnata, prevede limitazioni gravemente pregiudizievoli per i piccoli utenti (bambini fino a tre anni): i genitori infatti non saranno più liberi di scegliere tra nidi pubblici a gestione diretta (asili comunali) e nidi in convenzione, ma saranno obbligati ad indicare nella domanda di iscrizione, tra le prime tre opzioni, solo ed esclusivamente i nidi comunali, indipendentemente dalle loro necessità logistiche.
Gli asili in convenzione che riescono a dare una maggiore copertura al territorio e sono quindi più facilmente raggiungibili dalle famiglie non potranno più essere scelti in via preferenziata.
Dopo l’aumento sconsiderato delle rette negli ultimi due anni, ancora un provvedimento contro il benessere dei piccoli fruitori del servizio, e dunque contro un servizio che la Corte Costituzionale definisce di “tutela del diritto del lavoratore”. I genitori si ribellano all’ennesimo disagio a loro carico e danno mandato allo Studio Lana Lagostena Bassi di sospendere questo bando lesivo dei loro diritti e di quelli dei loro piccoli.
La modifica del bando, inserita per la prima volta e attuata senza fornire alcuna ragionevole motivazione, è contraria al principio di diversificazione nella modalità di gestione del servizio “asili nido” che ha consentito negli anni la libera scelta, da parte dei cittadini utenti, nella selezione e nell’utilizzazione del servizio medesimo permettendo loro di conciliare i tempi di lavoro con quelli di cura e di educazione della famiglia, cui tanto sembrerebbe tenere l’Amministrazione capitolina.
Lo Studio depositerà nelle prossime settimane un ricorso ad adiuvandum avendo ricevuto altre decine di procure dai genitori interessate a far sospendere e annullare la delibera comunale.
Il tribunale di Roma si pronuncia sull’affido condiviso del cane di una ex coppia di conviventi.
Il 7 novembre scorso il tribunale di Roma, con una pronuncia ‘innovativa’, ha deciso per l’affido condiviso di un cagnolino di nove anni conteso da due ex conviventi arrivati alle vie legali. Partendo dal presupposto che nel nostro ordinamento manca una norma di riferimento che disciplini l’affidamento di un animale domestico in caso di separazione dei coniugi o dei conviventi, il giudice ha fatto riferimento, per decidere la controversia, ad una proposta di legge che indica la formula dell’affido condiviso – utilizzata per i figli minori – come la migliore soluzione per questi casi.
In esecuzione della sentenza, pertanto, il cane vivrà sei mesi con l’uno e sei mesi con l’altra «con facoltà per la parte che nei sei mesi non lo avrà con sé, di vederlo e tenerlo due giorni la settimana, anche continuativi, notte compresa».
Il cane aveva vissuto con tutti e due durante la loro convivenza durata tre anni, all’anagrafe canina era stato registrato a nome di lei. Dopo la separazione era rimasto con la donna e tutti i giorni l’ex compagno passava a trovarlo.
La vicenda giudiziaria nasce dal fatto che la ex convivente per tre anni è stata privata della compagnia del cane sottrattole dall’altro padrone durante le vacanze di Natale del 2011. L’ex compagno non glielo aveva più fatto rivedere. Per questo è stato condannato a pagare tutte le spese della causa, per aver privato la ex di «un affetto fortemente percepito e privandone lo stesso cane». Il giudice di Roma ha ritenuto che l’affidamento condiviso «sia applicabile anche se le parti non erano sposate» dal momento che la proposta di legge giacente «estende la competenza del tribunale a decidere dell’affido dell’animale anche alla cessazione della convivenza more uxorio» e dato che ormai, anche se «con ritardo», si tende sempre più «ad equiparare la famiglia di fatto a quella fondata sul matrimonio». «Ma ciò che più rileva – continua il giudice onorario Antonio Fraioli – è che dal punto di vista del cane, che è l’unico che conta ai fini della tutela del suo interesse, non ha assolutamente alcuna importanza che le parti siano state sposate o meno: il suo legame ed il suo affetto per entrambe prescinde assolutamente dal regime giuridico che le legava». Ed ancora, «è indubbio che il cane si sia affezionato ad entrambe, le abbia identificate entrambe come suoi “padroni” e si sia abituato, per circa tre anni, a vivere a periodi alterni, con uno solo di loro, in abitazioni e luoghi diversi, condividendo abitudini di vita diverse».
Il giudice ha stabilito che cibo, cure mediche e «quanto altro eventualmente necessario al benessere» del cagnolino conteso debba essere pagato a metà da ciascuno dei due padroni.
Corte costituzionale: illegittimo attribuire automaticamente il cognome paterno.
La Corte Costituzionale, in data 8 novembre 2016, ha accolto la questione di costituzionalità sollevata dalla Corte di appello di Genova, dichiarando l’illegittimità della norma che prevedeva l’automatica attribuzione ai figli del solo cognome paterno, anche qualora i genitori volessero optare per una scelta diversa.
Il caso in esame riguardava un bambino nato nel 2012 con cittadinanza italiana e brasiliana che, finora, era stato identificato con cognomi diversi nei due Stati.
L’argomento non è nuovo in ambito nazionale e – soprattutto – internazionale. Ed infatti, già nel 2006 la Consulta aveva trattato un caso simile: in quell’occasione, pur dichiarando l’attribuzione automatica del cognome del padre un «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia», la Corte dichiarava inammissibile la questione sottolineando che spettava al legislatore trovare la strada risolutiva.
Tuttavia, nessuna normativa è mai stata adottata in materia, e dunque la Corte europea dei diritti dell’uomo, nel caso Cusan e Fazzo c. Italia del 7 gennaio 2014, in applicazione dei principi sanciti agli articoli 14 (divieto di discriminazione) e 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare) aveva condannato l’Italia per aver violato i diritti di una coppia di coniugi negando ai due la possibilità di attribuire alla figlia il cognome della madre anziché quello del padre.
A seguito di tale sentenza della Corte EDU, già nel febbraio 2014, è stato presentato e approvato dalla Camera un disegno di legge che sancisce finalmente il diritto dei figli ad avere il doppio cognome, tuttavia l’iter legislativo è paralizzato da due anni, ancora in attesa del primo esame da parte del Senato. Si auspica, quindi, che la pronuncia della Consulta dello scorso 8 novembre riporti la questione all’attenzione del legislatore e che si proceda all’approvazione del richiamato testo normativo.
Se esiste un rapporto “simbiotico” con la madre il figlio va col padre.
La sesta sezione civile della Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 23324 del 2016, depositata il 16 novembre, ha affermato che se il figlio ha un rapporto troppo stretto con la madre si dispone il collocamento prevalente presso il padre per un corretto ed equilibrato sviluppo della crescita del bambino.
La Cassazione ha infatti sottolineato che in simili casi è fondamentale l’intensificazione dei rapporti con l’altro genitore al fine di tutelare il piccolo e la sua crescita.
Gli ermellini hanno confermato la sentenza della Corte territoriale che, appunto, collocava il figlio minore presso il padre, rigettando il ricorso presentato dalla donna.
Presupposto della decisione è quello di ristabilire un equilibrio tra i rapporti che il figlio ha con entrambi i genitori, allentando il rapporto “simbiotico” che ha con la madre ed intensificando quello col padre al fine di garantirne il suo equilibrato sviluppo.
Ma non solo: la collocazione prevalente presso il padre non trova impedimento neanche se il minore, come è accaduto nel caso di specie, in sede di giudizio esprime il suo desiderio di rimanere con la madre: il rapporto di eccessiva dipendenza dalla donna, infatti, può compromettere il suo equilibrio e minare i suoi rapporti con il padre. Il minore, oltretutto, si trovava in un periodo in cui era fondamentale per lui rafforzare e identificare il rapporto con il padre.
La donna, quindi, non può far altro che accettare il verdetto e ristabilire un legame equilibrato con il piccolo.
Il testo della sentenza è consultabile QUI.
Mantenimento dei figli: dopo i 34 anni il genitore non paga più.
Nel momento in cui il figlio compie 34 anni, cessa l’obbligo al mantenimento da parte del genitore. Unica eccezione è nel caso in cui il ragazzo (non più tale) versi in stato di bisogno o di handicap (che deve comunque provare): in tal caso gli spettano però solo gli alimenti che, a differenza del mantenimento, sono una somma minima, quella cioè strettamente necessaria alla sua sopravvivenza.
Il Tribunale di Milano, con una recente ordinanza, ha dunque fissato un preciso e netto limite temporale il diritto al mantenimento da parte dei figli.
Con il superamento di una certa età – si legge nel provvedimento – il figlio maggiorenne, anche se non indipendente dal punto di vista economico e, quindi, privo di una adeguata retribuzione e stabile lavoro, raggiunge comunque una sua dimensione di vita autonoma e, pertanto, non può più essere trattato come ‘figlio’, bensì come ‘adulto’. Solo se egli riesce a dimostrare il suo stato di bisogno, e quindi di essere incapace a procurarsi lo stretto indispensabile di cui vivere, il genitore resta tenuto a versargli gli alimenti, ma non più di questo.
Superati i 34 anni, il figlio assume dei doveri di autoresponsabilità e, pertanto, non può pretendere la protrazione dell’obbligo al mantenimento oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura. Del resto, come giustamente detto dalla Cassazione già con la sent. n. 18076/14 del 20 agosto 2014, «l’obbligo dei genitori si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione», percorso che, evidentemente, secondo i giudici milanesi, si può dire compiuto al 35 anno.
Il principio non vale solo per il genitore che, dopo la separazione con l’ex coniuge, non convive più con il figlio, ma anche per quello presso cui l’abitazione questi continua ad avere la propria residenza e che, quindi, materialmente ogni giorno provvede al suo mantenimento.
Il giudice firmatario dell’ordinanza usa parole forti contro i cosiddetti «bamboccioni», arrivando ad additare come parassitario il comportamento del figlio che, anche dopo 34 anni, continua a chiedere soldi a mamma e papà. Si legge, infatti, nel provvedimento in esame che non è ammissibile «che la tutela della prole, sul piano giuridico, possa essere protratta oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, al di là dei quali si risolverebbe, com’è stato evidenziato in dottrina, in «forme di vero e proprio parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani».
Nel tentativo di identificare una età presuntiva, va rilevato, in linea con le statistiche ufficiali, nazionali ed europee, che oltre la soglia dei 34 anni, lo stato di non occupazione del figlio maggiorenne non può più essere considerato una ragione per continuare a chiedere il mantenimento: al contrario da quel momento in poi i genitori possono dirsi completamente liberati dall’obbligo di pagare le spese al figlio e mantenerlo; quest’ultimo potrà, semmai, avanzare la richiesta dei soli alimenti qualora versi in stato di necessità.
Corso di specializzazione sulla tutela europea dei diritti umani: XVII edizione.
Prosegue la XVII edizione del Corso di specializzazione sulla tutela europea dei diritti umani, organizzato dall’Unione forense per la tutela dei diritti umani, con il patrocinio del Consiglio d’Europa e del Consiglio Nazionale Forense.
Il corso si articola in una serie di quattro incontri, della durata di tre ore ciascuno, tenuti per quattro venerdì consecutivi (11, 18, 25 novembre e 2 dicembre) presso la Cassa forense in Via Ennio Quirino Visconti 6/8, Roma.
Tra i relatori, il giudice della Corte internazionale di giustizia, Giorgio Gaja, il Presidente della Corte EDU, Guido Raimondi, il giudice Vladimiro Zagrebelsky, il Prof. Enzo Cannizzaro, l’Avv. Prof. Anton Giulio Lana, il Prof. Vittorio Manes, il Prof. Andrea Saccucci ed il Cons. Crisafulli.
L’evento è destinato a tutti coloro che intendano conseguire una specializzazione sul tema della tutela europea dei diritti umani.
Il programma e le modalità di iscrizione sono disponibili QUI.
Clinica legale: “La procedura dinanzi la Corte europea dei diritti umani”.
Il 19 novembre scorso il Consiglio Nazionale Forense e l’Unione forense per la tutela dei diritti umani hanno organizzato una legal clinic dal titolo “La procedura dinanzi la Corte europea dei diritti umani”.
Il convegno ha avuto lo scopo di fornire un approfondimento pratico su come introdurre un ricorso dinanzi alla Corte di Strasburgo, illustrando i profili pratici e applicativi relativi alla procedura e alle regole della Corte EDU.
L’incontro è iniziato con un indirizzo di saluti da parte dell’Avv. Francesco Caia, Presidente della Commissione diritti umani del CNF, e dell’Avv. Prof. Anton Giulio Lana, Presidente dell’Unione forense. Hanno preso poi la parola il giurista della Corte EDU, Paolo Cancemi, il quale ha parlato delle modalità del ricorso individuale, l’Avv. Alessio Sangiorgi, che ha illustrato come introdurre un ricorso in materia di immigrazione e l’Avv. Fabio Gullotta, con un intervento sulla procedura di ricorso in materia di espropriazione. L’incontro si è concluso con l’intervento finale dell’Avv. Prof. Lana, il quale si è soffermato sulle principali problematiche e criticità emergenti dal nuovo formulario di ricorso, introdotto con la riforma dell’art. 47 del Regolamento di procedura della Corte EDU.
Al via la giornata inaugurale della rete dei diritti umani degli ordini forensi italiani.
L’Avv. Prof. Anton Giulio Lana, il prossimo 30 novembre, parteciperà alla giornata inaugurale della rete dei Diritti umani degli ordini forensi italiani.
L’evento, promosso dalla commissione dei Diritti umani del CNF, avrà luogo presso il Consiglio Nazionale Forense in Roma, via del governo vecchio n. 3 a partire dale ore 11,00.
Scopo dell’iniziativa sarà proprio quello di promuovere e realizzare la partecipazione fattiva degli ordini locali alla rete tra tutti i soggetti operanti nel settore dei diritti umani affinché, attraverso una programmazione sinergica, si attivi un contributo giuridico ed operativo continuo finalizzato alla tutela dei diritti umani e fondamentali della persona che possa alimentarsi delle esperienze territoriali, nazionali ed internazionali.