Il Parlamento approva la riforma sul divorzio breve.
Lo scorso 22 aprile la Camera dei Deputati ha approvato definitivamente il disegno di legge sul c.d. divorzio breve. Il testo 6 maggio 2015 n. 55 (G.U. n. 107 del 11-05-15), che interviene sulla legge n. 898 del 1970, modificando la lettera b) del numero 2) dell’art. 3, e sull’art. 191 c.c., entrerà in vigore con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. La nuova normativa anticipa il momento di proposizione della domanda di divorzio, nonché quello relativo allo scioglimento della comunione dei beni tra i coniugi, definendo contestualmente il regime transitorio. Fino ad ora, il divorzio poteva esser chiesto dopo 3 anni dal passaggio in giudicato della sentenza di separazione o dall’omologa del verbale, in caso di procedimento consensuale. Con l’entrata in vigore della nuova legge, la domanda di divorzio potrà essere proposta dopo 12 mesi di ininterrotta separazione, ovvero 6 mesi, se consensuale. Entrambi i termini decorrono dall’udienza di comparizione dei coniugi davanti al Presidente del Tribunale. La previsione di un termine così breve, per di più con decorrenza anticipata, determinerà ipotesi in cui la richiesta di divorzio intervenga ancor prima che sia concluso il giudizio di separazione. Per evitare tale sovrapposizione di giudizi, occorrerà attendere il decreto di attuazione, o le pronunce della giurisprudenza sul tema, che chiariscano gli interrogativi posti dall’introduzione della normativa sui processi attualmente pendenti. In ogni caso, resta l’obbligo dei due procedimenti (separazione e divorzio) per poter ottenere la cessazione degli effetti civili del matrimonio. È stata stralciata, infatti, la disposizione sul c.d. divorzio immediato, che – in caso di accordo o di ricorso congiunto da parte dei coniugi, purché in assenza di figli minori o maggiorenni incapaci, portatori di handicap grave o minori di 26 anni economicamente non autosufficienti – avrebbe permesso di proporre direttamente la domanda di divorzio. Per quel che concerne gli effetti sul regime patrimoniale, l’art. 2 della legge in esame ha modificato l’art. 191 c.c., stabilendo che lo scioglimento del regime di comunione legale avvenga a far data dal provvedimento del Presidente del Tribunale che autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero dalla sottoscrizione del verbale di separazione consensuale, purché omologato, non dovendo più attendere il passaggio in giudicato della sentenza di separazione. A tal fine, l’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati deve esser comunicata all’Ufficiale dello Stato civile, per l’annotazione dello scioglimento della comunione. La nuova normativa si applicherà anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore. Infatti, oltre a semplificare e velocizzare le procedure, tale riforma è evidentemente tesa ad alleggerire il carico di cause pendenti nelle aule giudiziarie. A tal proposito, si evidenzia come la legge sul divorzio breve sia da ritenere complementare alla normativa sulla negoziazione assistita, introdotta con D.l. n. 132 del 2014 (convertito nella L. n. 162/2014), per cui il documento che sancisce l’accordo tra i coniugi – redatto con l’assistenza di almeno un avvocato per parte, sottoposto al vaglio del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale competente e trasmesso in copia all’Ufficiale di Stato civile – abbia gli stessi effetti dei procedimenti giudiziali di separazione, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonché di modifica delle condizioni di separazione o divorzio. In definitiva, benché tale intervento normativo sia da accogliere con favore, si attende un’integrazione del Governo mediante specifiche disposizioni di attuazione soprattutto per quel che concerne il regime transitorio, in modo da rendere la normativa concretamente applicabile anche ai procedimenti in corso di causa.
Cassazione: il vincolo matrimoniale permane nonostante il cambiamento di sesso.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 8097 del 21 aprile 2015, si è pronunciata sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio in seguito alla domanda di rettificazione e attribuzione di sesso, imprimendo un’importante svolta in materia. La Suprema Corte ha recepito la recente sentenza n. 170/2014 della Corte Costituzionale, che aveva dichiarato l’illegittimità degli artt. 2 e 4 della l. 164/1982 ( cd. legge sul transessualismo) con riferimento all’art. 2 della Costituzione. In virtù della suddetta legge, la sentenza di rettificazione del sesso deve obbligatoriamente contenere l’ordine all’Ufficiale di Stato civile di annotare la rettificazione nel relativo registro così da determinare automaticamente e d’ufficio lo scioglimento del vincolo matrimoniale. La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi su un ricorso contro l’annullamento delle nozze di una coppia sposata prima dell’intervento di rettificazione del sesso di uno dei coniugi, aveva sollevato la questione di legittimità di fronte alla Corte Costituzionale, chiedendo se il divorzio “imposto” non violasse la Costituzione. Secondo la Consulta la richiamata norma si pone in contrasto con l’art. 2 della Costituzione nella parte in cui non prevede che la sentenza di rettificazione consenta – ove richiesto – di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente tutelato. La Corte di Cassazione, adeguandosi a questa pronuncia, ha accolto il ricorso ed ha ritenuto che sia necessario “ conservare il riconoscimento dei diritti e doveri conseguenti al vincolo matrimoniale legittimamente contratto fino a quando il legislatore non consente di mantenere in vita il rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata che ne tuteli adeguatamente diritti ed obblighi”. L’eventuale annullamento del matrimonio, infatti, priverebbe completamente di tutela la coppia che fino a quel momento godeva di una piena protezione costituzionale (nonché convenzionale ex art. 8 CEDU) e che, oltretutto, voleva rimanere sposata. Quello della Cassazione è, in realtà, un monito al Parlamento ad introdurre quanto prima una forma di regolamentazione valida per le coppie dello stesso sesso, che consenta loro di avere tutele equivalenti a quelle del matrimonio.
La Corte di Cassazione interviene sulla pignorabilità dei fondi appartenenti al Ministero della Giustizia.
Con sentenza n. 6078 del 26 marzo 2015 la Corte di Cassazione ha affrontato il tema della pignorabilità dei fondi appartenenti al Ministero della Giustizia. E’ noto come l’avere ottenuto una condanna dello stato al pagamento di un ‘equo indennizzo’ per ritardi nello svolgimento di un processo – c.d. Legge Pinto – dia ben poca soddisfazione nella successiva fase, quella relativa all’ottenimento del pagamento. Spesso, infatti, il cittadino non riceve il pagamento da parte dello Stato se non in tempi lunghissimi. La situazione si complica ove si consideri che alcune norme del nostro ordinamento stabiliscono una serie di limiti alla pignorabilità di gran parte dei beni potenzialmente aggredibili. Fenomeno tanto grave e palese che, usando le parole della Corte di cassazione: “la Corte Europea ha ulteriormente condannato lo Stato Italiano perché le sentenze emesse in forza della legge “Pinto”, non solo non vengono eseguite, ma vengono ostacolate con mezzi francamente inaccettabili”. Nel caso esaminato dalla Cassazione, il creditore dell’equa riparazione aveva tentato un pignoramento dei fondi depositati presso la Banca d’Italia appartenenti al Ministero della Giustizia. Accogliendo gli indirizzi della Corte Europea, la Corte di cassazione conferma che i fondi del Ministero della Giustizia, comunque diversi da quelli tassativamente indicati dal D.L. n. 143 del 2008, art. 1, sono da considerarsi liberamente pignorabili. La Corte di Strasburgo ha, infatti, sancito il principio di civiltà secondo cui lo Stato membro è obbligato a stanziare le somme destinate alla soddisfazione del creditore senza frapporre ostacoli, pena l’ulteriore violazione dell’art. 6 della Convenzione per mancata esecuzione della sentenza interna che accerta il diritto di credito dell’individuo nei confronti dello Stato. Pertanto, i fondi del Ministero della Giustizia, comunque diversi da quelli tassativamente indicati dal D.L. n. 143 del 2008, art. 1, sono liberamente pignorabili.
Responsabilità civile dei magistrati: la Cassazione ‘blocca’ le ricusazioni.
Stop della Cassazione al rischio pioggia di ricusazioni dopo la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Ricordiamo che il provvedimento di modifica la legge Vassalli (117/1998) aveva rivisto le condizioni per cui chi ha subito un danno per effetto di un comportamento o un atto di un giudice con dolo o colpa grave o per diniego di giustizia (in caso cioè di rifiuto, ritardo o omissione nel compimento di un atto giudiziario) può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali. La nuova normativa aveva ampliato le ipotesi di responsabilità del magistrato e ridefinite le fattispecie di colpa grave. Inoltre, veniva abrogato del tutto il filtro di ammissibilità della domanda di risarcimento presentata dal cittadino, passaggio che secondo molti rappresentava uno degli elementi più critici della normativa previgente perché riduceva al minimo la possibilità di risarcimento per i cittadini. Su questa nuova normativa si è ora pronunciata la Cassazione con sentenza n. 16924/2015: si chiarisce che l’azione di risarcimento dei danni intentata da chi si ritiene danneggiato da un giudice “non costituisce di per sé ragione idonea e sufficiente a imporre la sostituzione del singolo magistrato”. Non solo: la proposizione di più azioni di risarcimento danni nei confronti di più giudici dello stesso ufficio “non costituisce grave situazione locale idonea a imporre la rimessione del processo”. Nel caso di specie, i Supremi Giudici esaminano le nuove regole sulla responsabilità civile delle toghe affrontando il ricorso di un avvocato sotto processo a Pordenone per furto pluriaggravato, falso per soppressione e calunnia che aveva chiesto di trasferire il procedimento a suo carico per “l’incompatibilità ambientale della sede di Pordenone per motivi risarcitori civili nei confronti del secondo giudice e di altri due magistrati, in servizio presso il tribunale penale” della città. Con la propria pronuncia, i giudici sembrano voler disinnescare il pericolo di un ricorso incontrollato allo strumento della ricusazione. Si esclude infatti che il magistrato nei confronti del quale un imputato avanzi domanda risarcitoria possa mai essere considerato “debitore” di chi ha proposto la domanda, perché anche dopo la legge 18/2015 l’istanza può essere proposta solo ed esclusivamente nei confronti dello Stato. Inoltre, si sottolinea che “l’azione di risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie esercitata ai sensi della legge 117/1988 anche dopo le modifiche introdotte dalla legge 18/2015 non costituisce per sé ragione idonea e sufficiente a imporre la sostituzione del singolo magistrato”.
I diritti fondamentali in Europa: corso on line.
L’Università la Sapienza di Roma, con il patrocinio del Consiglio Nazionale Forense e l’Unione Forense per la Tutela dei Diritti Umani organizza il corso di Alta Formazione, rivolto ai professionisti del settore ed a coloro che intendano conseguire una specializzazione nelle materie attinenti la protezione e promozione dei diritti umani. Direttore del Corso di Alta Formazione è il Prof. Enzo Cannizzaro, ordinario di diritto internazionale e dell’Unione europea (Sapienza – Università di Roma). Il Comitato di direzione è composto dal Direttore, dal Prof. Gian Luigi Tosato, ordinario di diritto dell’Unione europea (Sapienza – Università di Roma), e dall’Avv. Anton Giulio Lana (Segretario generale dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani). Coordinatore delle attività didattiche è il Dott. Nicola Napoletano, ricercatore di diritto internazionale (Unitelma Sapienza). Il Corso – suddiviso in nove Moduli – si avvale dell’insegnamento di professori e ricercatori di Università italiane e straniere, di esperti del settore particolarmente qualificati come funzionari di amministrazioni europee e nazionali, e di professionisti esperti nella materia. La scheda di sintesi è consultabile QUI.
Corso di specializzazione sulla Convenzione europea dei diritti umani: terzo modulo monotematico.
Il 15 maggio p.v., presso la Sala Seminari della Cassa Nazionale Forense, si terrà il terzo incontro del nuovo “Corso di specializzazione sulla convenzione europea dei diritti umani”, organizzato dall’Unione forense per la tutela dei diritti umani (UFTDU) con il patrocinio del Consiglio d’Europa di Venezia, che si articolerà in sei distinti moduli tematici della durata di sei ore ciascuno. Questo secondo modulo avrà ad oggetto il diritto alla vita e divieto di tortura. Il corso è destinato ad avvocati, magistrati, praticanti avvocati, laureandi in giurisprudenza, operatori del diritto, rappresentanti delle ONG specializzate nel settore dei diritti umani, funzionari della pubblica amministrazione e, in generale, a tutti coloro che intendano conseguire una specializzazione nelle materie della CEDU. Le lezioni successive si terranno i prossimi 22 maggio, 19 giugno e 3 luglio e prevedono un massimo di 80 partecipanti. Il programma del corso è disponibile cliccando QUI.