La Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia nel caso Contrada in materia di concorso esterno in associazione mafiosa.
Il 14 aprile scorso la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata sul ricorso presentatole nel 2008 dall’italiano Bruno Contrada. Il ricorrente era stato arrestato il 24 dicembre del 1992 ed in seguito condannato con sentenza del Tribunale di Palermo del 5 aprile 1996 per concorso esterno in associazione di tipo mafioso, sentenza poi confermata in Cassazione. Contrada, che all’epoca dei fatti era un funzionario di polizia nonché direttore aggiunto del SISDE (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica), era stato ritenuto, nello specifico, colpevole di aver contributo all’attività di Cosa Nostra fornendo ai membri dell’organizzazione criminale informazioni riservate riguardo lo stato di avanzamento delle indagini in materia. Nel caso in esame il ricorrente lamentava una violazione dell’art. 7 CEDU ed in particolare del principio del “nullum crimen, nulla poena sine lege”: riteneva infatti che all’epoca dei fatti imputatigli (1979-1988), il reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso non fosse ancora stato ancora elaborato e sviluppato. In una parola, non esisteva. Tale fattispecie sarebbe infatti nient’altro che il frutto di elaborazioni giurisprudenziali successive però alla sua condanna. Per altro, non esistendo il reato, il ricorrente non avrebbe potuto prevedere con precisione la qualificazione giuridica dei fatti da lui compiuti e, di conseguenza, nemmeno la pena sanzionatoria relativa. Richiamava dunque, a sostegno delle proprie ragioni, il principio di tassatività della norma penale, corollario della più generale del divieto di retroattività in materia penale. I giudici della Corte EDU si sono espressi in favore di Contrada, ritenendo che i tribunali italiani non avevano esaminato in modo approfondito la questione sul se tale reato fosse stato realmente conosciuto dall’imputato quando commise i fatti. Inoltre, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che all’epoca dei fatti (1979-1988) la formulazione del delitto fosse ancora totalmente incerta ed indefinita, essendo l’ammissione della sua esistenza affermata in maniera esplicita solo posteriormente, nei primi anni Novanta. Tali elementi sono stati ritenuti sufficienti per riscontrare la violazione dell’art. 7 CEDU: la Corte ha infatti ritenuto che non vi fosse una base legale per l’inflizione di una condanna e della relativa pena.
L’ex coniuge che costituisce una famiglia di fatto perde il diritto all’assegno di mantenimento: sentenza n. 6855 /15 della Corte di Cassazione.
Con la sentenza n. 6855 del 3 aprile 2015, la Corte di Cassazione ha stabilito che perde il diritto all’assegno di mantenimento il coniuge che abbia costituito un nuovo nucleo familiare, anche di fatto. Tale pronuncia si inserisce nell’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr. Cass. Civ. n. 23968/2010 e n. 17195/2011), per cui, sebbene la semplice convivenza del coniuge con altra persona non incide di per sé sull’assegno di mantenimento, qualora tale fenomeno assuma i connotati di stabilità e continuità, per cui i conviventi elaborino un progetto di vita comune, la mera convivenza si trasforma in una vera e propria famiglia di fatto. A quel punto, deve ritenersi rescissa “ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, con ciò, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione di esso”. La Cassazione ha precisato, tuttavia, che non vi è piena analogia tra la famiglia di fatto del coniuge divorziato ed il nuovo matrimonio. Infatti, mentre quest’ultimo fa cessare automaticamente il diritto all’assegno di mantenimento, per la convivenza è sempre necessaria una pronuncia giurisdizionale, che accerti la sussistenza nel caso concreto dei presupposti caratterizzanti la famiglia di fatto, rispetto ad una mera convivenza more uxorio. Alla luce dell’orientamento nettamente maggioritario sopra indicato, la portata innovativa della sentenza in esame concerne, in particolare, la definitività della perdita del diritto al mantenimento. Nella 2011, la Cassazione definiva tale fenomeno come una sorta di “quiescenza del diritto all’assegno, che potrebbe riproporsi in caso di rottura della convivenza tra i familiari di fatto” (Cass. Civ. 17195/2011). Discostandosi da ciò, la Corte ha ritenuto opportuno affermare che, costituendo una famiglia di fatto (come pacificamente definitiva dalla giurisprudenza, anche alla luce dell’art. 2 della Costituzione), il coniuge compie una “scelta esistenziale libera e consapevole”, che comporta necessariamente la piena assunzione di un rischio, che tenga conto della possibile cessazione del rapporto tra i conviventi. P
ertanto, il Giudice di legittimità ha tutelato l’affidamento in buona fede del coniuge obbligato al mantenimento, escludendo la possibilità che, anche a distanza di anni, l’altro coniuge potesse nuovamente pretendere la corresponsione dell’assegno in virtù di un rapporto matrimoniale, ormai definitivamente esaurito. La sentenza arricchisce, indubbiamente, la sfera delle conseguenze giuridiche che l’ordinamento riconnette alla costituzione di un nucleo familiare di fatto. Tuttavia, persistono ancora diverse criticità che il legislatore dovrà risolvere, prima tra tutte l’assenza di parametri oggettivi per accertare in sede giurisdizionale l’esistenza di una “famiglia di fatto”, fattispecie non sempre facilmente individuabile, specialmente quando non vi sono figli.
Caso ILVA: la Corte europea afferma la mancanza di attuali conoscenze mediche in grado di dimostrare un nesso causale tra emissioni prodotte dall'acciaieria e la leucemia.
Con decisione depositata lo scorso 16 aprile u.s., la Corte europea dei diritti dell’uomo, ha dichiarato inammissibile il ricorso avanzato dalla sig.ra Smaltini – e proseguito dai suoi eredi – contro l’Italia, per l’annosa vicenda della leucemia e dei decessi determinati, secondo quanto sostenuto nel ricorso, dall’inquinamento provocato dall’ILVA di Taranto. Il giudice di Strasburgo, disattendendo le aspettative che non solo i ricorrenti, bensì tutti gli abitanti di Taranto riponevano in una pronuncia di condanna, ha negato la sussistenza della violazione dell’art. 2 della CEDU da parte del Governo italiano. Una ferita, dunque, nel cuore del sud Italia che rimane ancora aperta. Nel caso di specie la sig.ra Smaltini, dopo aver scoperto nel 2006 di essersi ammalata di leucemia mieloide acuta, sporgeva denuncia contro i dirigenti dell’Ilva per lesioni personali derivanti dalla violazione delle norme in materia di salute ed ambiente, ed in particolar modo del DPR. 196/1998. La ricorrente motivava la propria denuncia sostenendo l’esistenza di un nesso di causalità, a suo dire scientificamente comprovato, tra le emissioni dell’acciaieria e la malattie tumorale diagnosticatale. A conclusione delle indagini preliminari, e a seguito di perizia, il GIP accoglieva la nuova richiesta di archiviazione avanzata dal PM, concludendo il procedimento penale interno. La sig.ra Smaltini decideva allora di fare ricorso alla CEDU, dolendosi della violazione del proprio diritto alla vita, e sostenendo che l’esistenza di un nesso di causalità tra le emissioni nocive dell’acciaieria Ilva e l’avanzare del proprio tumore fosse provata. Il principio del petitum ha spinto la corte ad analizzare soltanto se la giurisdizione nazionale avesse o meno esaminato scrupolosamente la denuncia della ricorrente e se esistissero elementi sufficienti a provare il nesso di causalità. Tale decisione ha sicuramente indirizzato la Corte verso una pronuncia di assoluzione dello Stato italiano, confermando l’inesistenza, al momento del procedimento interno e sulla base delle risultanze probatorie fornite, di conoscenze scientifiche specifiche sul legame tra inquinamento e leucemia mieloide. I rapporti del tempo, analizzati dai periti, evidenziavano infatti una maggiore incidenza nell’area di Taranto dei tumori al polmone ed alla pleura, e non anche un aumento delle leucemie. Eppure l’Unione Forense per la tutela dei diritti umani (UFTDU), nel proprio intervento in qualità di amicus curiae, con il patrocinio degli avv.ti Anton Giulio Lana e Andrea Saccucci, aveva proprio sottolineato come la vera materia del contendere avrebbe dovuto essere la violazione dell’art. 2 CEDU, nella misura in cui l’Italia non aveva posto in essere le misure appropriate al fine di salvaguardare la vita dei propri cittadini. Inoltre, come la giurisprudenza della stessa Corte ha più volte sostenuto, lo Stato ha anche l’obbligo di porre in essere una tutela effettiva della vita attraverso la riduzione dei rischi potenziali alla salute di coloro che si trovano sul proprio territorio. Per questo, nel suo intervento l’UFTDU, aveva richiamato il principio di precauzione (di natura comunitaria, ma riconosciuto in svariati arresti giurisprudenziali della Corte EDU), a tema del quale la mancanza di certezza alla luce delle conoscenze scientifiche e tecniche del momento non può giustificare i ritardi dello Stato nell’adozione di misure efficaci e proporzionate per evitare il rischio di danni gravi e irreversibili per l’ambiente, la salute umana, e dunque la sicurezza e la salute degli individui. La stessa Corte EDU poi non si era fatta sfuggire come l’Italia fosse stata già sanzionata più volte dall’UE in materia ambientale: nel 2011, infatti, la Corte di Lussemburgo aveva riscontrato la violazione della direttiva 2008/1/CE relativa alla prevenzione ed alla riduzione dell’inquinamento, mentre, nel 2014, la Commissione europea aveva aperto una procedura di infrazione, sempre nei confronti dell’Italia, per non aver posto rimedio ai gravi problemi di inquinamento creati proprio dall’ILVA. Dispiace dunque questa decisione d’irricevibilità della Corte, in una posizione forse troppo cauta, anche alla luce della delicatezza anche politica della tematica. Uno spiraglio, comunque, resta aperto: la Corte EDU ha infatti affermato che tale decisione lascia impregiudicati i futuri studi scientifici relativi all’incidenza dell’inquinamento sulla salute dei cittadini e sulla possibile esistenza del nesso di casualità.
Diritto dei figli biologici di coppie omosessuali separate a mantenere rapporti con entrambi i genitori.
Con decreto dello scorso 13 aprile, il Tribunale di Palermo, Prima Sezione Civile, ha emesso una pronuncia storica in materia di diritti dei figli biologici di coppie omosessuali separate. Sul tema, infatti, manca ancora nel nostro Paese una disciplina normativa protettiva dell’interesse del minore: ad oggi l’unico rapporto riconosciuto e tutelato dalla legge è quello con il genitore biologico, mentre la relazione con il genitore cosiddetto “sociale”, seppure affettiva e duratura, non riceve alcuna tutela giuridica. Questa discriminazione vìola palesemente il principio del mantenimento di rapporti costanti con ambedue i genitori in caso di crisi della coppia: con la recente pronuncia il collegio giudicante ha, per la prima volta, attestato il diritto del minore a mantenere una relazione affettiva con l’ex convivente della madre biologica, riconoscendo a quest’ultima la possibilità di incontrare e tenere con sé i figli, secondo un calendario di incontri stabilito. Il provvedimento del Tribunale di Palermo ha valorizzato il criterio del superiore interesse del minore: quando il rapporto con il genitore sociale è tale da fondare l’identità personale e familiare del bambino, questo deve essere tutelato alla pari di quello con il genitore biologico, come riconosciuto dall’art. 337 ter c.c. Per determinare il carattere familiare delle relazioni de facto si devono considerare una serie di elementi, come la stabilità, la progettualità comune, nonché la convivenza per un tempo significativo. Al cospetto di queste circostanze, la situazione di fatto può integrare a tutti gli effetti un rapporto familiare, così come tutelato dall’art. 8 CEDU. Nel decreto del Tribunale di Palermo si legge infatti che: “la necessità di garantire il superiore interesse dei minori, posto alla base della norma di cui all’art. 337 ter e di interpretare la norma in conformità all’elaborazione giurisprudenziale che di tale principio ha fornito la Corte Europea nell’applicazione dell’art.8 CEDU, impone di procedere ad un’interpretazione certamente evolutiva ma costituzionalmente e convenzionalmente conforme dell’art.337 ter c.c., volta ad estendere l’ambito applicativo della stessa sino a delineare un concetto allargato di bigenitorialità e di famiglia, ricomprendendo per tale via anche la figura del genitore sociale, ossia di quel soggetto che ha instaurato con il minore un legame familiare de facto significativo e duraturo.
Corso di specializzazione sulla Convenzione Europea dei Diritti Umani: moduli monotematici.
Il 24 aprile p.v., presso la Sala Seminari della Cassa Nazionale Forense, si terrà il secondo incontro del nuovo “Corso di specializzazione sulla convenzione europea dei diritti umani”, organizzato dall’Unione forense per la tutela dei diritti umani (UFTDU) con il patrocinio del Consiglio d’Europa di Venezia, che si articolerà in sei distinti moduli tematici della durata di sei ore ciascuno. Questo secondo modulo avrà ad oggetto il processo dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo e vedrà la partecipazione dell’Avv. Maurizio De Stefano, membro del Comitato Direttivo dell’UFTDU, dell’Avv. Alessandra Mari e dell’Avv. Andrea Saccucci, Professore di diritto internazionale presso la Seconda Università di Napoli. Il corso è destinato ad avvocati, magistrati, praticanti avvocati, laureandi in giurisprudenza, operatori del diritto, rappresentanti delle ONG specializzate nel settore dei diritti umani, funzionari della pubblica amministrazione e, in generale, a tutti coloro che intendano conseguire una specializzazione nelle materie della CEDU. Le lezioni successive si terranno i prossimi 15 maggio, 22 maggio, 19 giugno e 3 luglio e prevedono un massimo di 80 partecipanti