Torture alla Diaz durante il G8: la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo condanna l’Italia.
L’operato della Polizia di Stato nella scuola Diaz la notte del 21 luglio 2001 “deve essere qualificato come tortura”. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia sotto un duplice profilo: per il massacro dei manifestanti e per non avere ancora una legge adeguata a punire quel reato. La sentenza della Corte di Strasburgo si è pronunciata sul ricorso di Arnaldo Cestaro, oggi settantaseienne: quella notte era alla Diaz e fu uno degli 87 no global massacrati e feriti – su 93 che furono arrestati – durante quella che la Polizia definì una “perquisizione ad iniziativa autonoma” finalizzata alla ricerca di armi e black bloc dopo le devastazioni avvenute a Genova durante le proteste contro il G8. I colpevoli di quella violenza – sostiene la Corte di Strasburgo – avrebbero dovuto essere puniti adeguatamente ma ciò non fu possibile “a causa dell’inadeguatezza delle leggi italiane”. Chi “ha torturato non è mai stato identificato, anche perché entrando alla Diaz aveva il viso coperto, e non indossava un numero di identificazione”. Ed inoltre, anche chi è stato processato e condannato “non ha scontato alcuna pena poiché i reati sono caduti in prescrizione”. E questa è una colpa da imputare “alla mancanza in Italia del reato di tortura o di reati altrettanto gravi”. Violazioni che la Cassazione – con la sentenza con cui ha confermato le condanne ai vertici della Polizia di Stato che erano a Genova, Gratteri, Luperi e Caldarozzi, per i falsi verbali – aveva già pienamente indicato, pur non potendo parlare di tortura: ci fu un “uso spropositato della violenza” da parte della Polizia, che ha “gettato discredito sulla nazione agli occhi del mondo intero”. I poliziotti – hanno scritto i giudici – “si scagliarono sui presenti, sia che dormissero, sia che stessero immobili con le mani alzate, colpendo tutti con i manganelli e con calci e pugni, sordi alle invocazioni di ‘non violenza’ provenienti dalle vittime, alcune con i documenti in mano, pure insultate al grido di ‘bastardi’”. Ora tocca all’Italia intervenire nella direzione indicata dalla Corte di Strasburgo, approvando immediatamente la proposta di legge che introduce il reato, con pene che vanno dai quattro ai dieci anni, approdata alla Camera lo scorso 23 marzo. Un vuoto, sostiene il presidente della Camera Laura Boldrini, ‘intollerabile’. In attesa che il Parlamento colmi il vuoto, resta una certezza: l’incursione alla Diaz, hanno detto i processi, avrebbe dovuto “riscattare l’immagine della Polizia” dopo le devastazioni, ma la verità è che l’ha compromessa. Anche perché, ancora oggi, nessuno degli autori materiali di quel massacro sta scontando una pena: per i dieci funzionari condannati in appello per lesioni – il comandante del Reparto Mobile di Roma Vincenzo Canterini, il suo vice e i capisquadra – la Cassazione non ha potuto far altro che dichiarare prescritto il reato. E tutti gli altri, decine e decine di poliziotti, che entrarono nella scuola, non sono mai stati identificati.
Proseguono i pagamenti relativi all’‘equa riparazione.
In questi giorni il Ministero sta proseguendo ad effettuare i pagamenti relativi alla c.d. ‘equa riparazione’ ex art. 27 bis del d. legge 90/2014 (convertito in l. 114/2014) per ristorare i soggetti danneggiati da trasfusione con sangue infetto. Ricordiamo che si tratta della somma di € 100.000,00 offerta dallo Stato agli aventi diritto che abbiano presentato domanda di adesione alla procedura transattiva entro il 19 gennaio 2010. L’accettazione di tale importo presuppone la preventiva, immediata e formale rinuncia ai processi pendenti già intrapresi (ivi comprese le procedure transattive), e ad ogni ulteriore futura pretesa di carattere risarcitorio nei confronti dello Stato, tanto di fronte ai giudici italiani quanto di fronte ai giudici sovranazionali (Corte di Strasburgo).La somma a titolo di ‘equa riparazione’ verrà inoltre corrisposta detraendo gli importi eventualmente già percepiti a titolo di risarcimento del danno a seguito di sentenza esecutiva. Si tratta della prima fase relativa alla procedura di liquidazione degli importi che – salvo mancanze di disponibilità annuale nel bilancio statale – dovrebbe concludersi entro il 31 dicembre 2017. I Clienti dello Studio che non vi avessero già provveduto, sono pregati di contattarci senza indugio, una volta ricevuta la lettera da parte del Ministero della Salute contenente la ‘proposta’ di adesione all’‘equa riparazione’, onde valutare, caso per caso, l’opportunità di accettare la detta procedura. Parimenti, per chi avesse già espresso al Ministero la propria adesione, segnaliamo che il ricevimento della somma richiamata dovrà essere comunicato per tempo ai singoli uffici giudiziari di fronte ai quali vi siano procedimenti pendenti al fine di abbandonare i relativi giudizi.
Adottabile il minore quando l’inidoneità della madre rende presuntivamente inutile l’intervento di sostegno: sentenza n. 6137/15 della Corte di Cassazione.
Nel marzo 2015 la Corte di Cassazione si è pronunciata rigettando il ricorso di una madre che si opponeva alla pronuncia di adottabilità della propria figlia (Cass. Civ., 30 marzo 2015 n. 6137). Il provvedimento era stato disposto originariamente dal Tribunale per i minorenni di Torino che aveva dichiarato lo stato di abbandono della minore da parte del padre naturale e sospeso la potestà genitoriale della donna. Quest’ultima infatti era stata ritenuta poco attenta, immatura, infantile ed instabile dal punto di vista affettivo, caratteristiche personali tali da determinare, a parere dei giudici, “gravissime carenze nell’accudimento”. L’opinione era stata poi condivisa dalla Corte di Appello del capoluogo piemontese che aveva riconosciuto il sussistere dello stato di abbandono definitivo dovuto all’“inidoneità incolpevole” della madre. I limiti intellettivi e caratteriali della donna, infatti, sarebbero così gravi e pronunciati da impedirle di prendersi adeguatamente cura della figlia, arrivando a comprometterne in modo irreversibile lo sviluppo. La donna, d’altro canto, lamentava il mancato esperimento di un progetto di sostegno alla genitorialità da parte dei Servizi socio-assistenziali locali, che veniva però motivato dalla Corte mediante un giudizio prognostico sulla sua inutilità proprio a causa della personalità limitata della genitrice che ne avrebbe impedito la buona riuscita. Con il ricorso in Cassazione la ricorrente ed i suoi legali lamentavano, in particolare, la violazione della legge sull’adozione, n. 184 del 4 maggio 1983, secondo cui la dichiarazione di adottabilità si pone come l’extrema ratio, volta a sopperire la totale incapacità dei genitori. Inoltre la legge sull’adozione, così come modificata nel 2001, contiene all’art. 1 un principio generale, più volte richiamato anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui il minore è titolare di un vero e proprio diritto a crescere ed essere educato nel proprio ambito familiare. In casi di difficoltà ed indigenza dello stesso nucleo, lo Stato e gli enti locali sono dunque chiamati ad intervenire mediante misure dirette a rimuovere, o almeno mitigare, tali situazioni. Come affermato nella sentenza della Corte europea Zhou c. Italia del 21 gennaio 2014, il non rispetto di tale principio da parte delle autorità nazionali costituisce una violazione dell’art. 8 CEDU, che tutela il diritto al rispetto della vita familiar
e. La Corte di Cassazione fornisce sul punto un’interpretazione in sé contraddittoria, in quanto, da un lato, richiama tale normativa e giurisprudenza di riferimento e pur tuttavia decide, dall’altro, di respingere il ricorso della donna, concedendo peso preponderante all’inidoneità, incolpevole, di quest’ultima ad esercitare il suo ruolo di educatore. La sentenza si basa prevalentemente su un giudizio prognostico di fallimento dell’ipotetico intervento di sostegno, in antitesi e contrasto con le recenti decisioni della Corte di Strasburgo sul tema, con il rischio concreto di una condanna dell’Italia in caso di ricorso alla Corte stessa. Ciò che lascia maggiormente perplessi di tale sentenza è proprio il ruolo che la Cassazione si è attribuita relativamente al suddetto giudizio preventivo: un giudizio che è fondato su di una congettura – e non invece su un tentato esperimento effettivo – e che tuttavia è suscettibile in buona sostanza di negare integralmente sia il diritto alla genitorialità, sia contemporaneamente il diritto del minore di crescere nella propria famiglia di origine.
L’interesse del minore prevale anche in caso di trasferimento senza il preventivo accordo tra i genitori.
Con la sentenza n. 6132/2015, depositata in data 26 marzo 2015, la prima sezione della Corte di Cassazione si è espressa in materia di affidamento condiviso, dichiarando la legittimità del trasferimento di un minore da una città ad un’altra con la madre, senza il consenso del padre né, tantomeno, l’autorizzazione del Tribunale. Nel caso in questione, il Tribunale di Milano, in sede di separazione tra i genitori, aveva disposto l’affido condiviso del figlio minore, con collocazione presso la casa familiare della madre a Milano. In seguito la madre aveva arbitrariamente cambiato la propria residenza a Roma, portando con sé il figlio, senza un accordo con l’altro genitore. Il padre si rivolgeva pertanto alla Corte d’Appello di Milano, sezione Minorenni, chiedendo di ammonire la ex compagna per aver posto in essere comportamenti ostruzionistici per il rapporto padre-figlio, ma la Corte, ritenuto che il bambino si era ormai radicato nella nuova città e nella nuova scuola, rigettava la richiesta di ritrasferimento. Con la citata sentenza la Suprema Corte ha confermato la decisione dei giudici d’Appello, in quanto “fa corretta applicazione del principio secondo cui le decisioni riguardanti i figli minori, compresa la scelta della sua residenza, non devono tenere conto degli interessi dei genitori, ma esclusivamente dell’interesse del minore stesso, anche nei casi in cui questo possa eventualmente coincidere, in via di fatto, con quello di uno dei genitori affidatari che non abbia rispettato il metodo dell’accordo in tema d’indirizzo della vita familiare fissato dall’art. 144 c.c., applicabile anche per la scelta della residenza del figlio affidato ad entrambi i genitori in modo condiviso dopo la separazione tra coniugi o dopo l’interruzione della convivenza tra i genitori non coniugati”.
Corso di specializzazione sulla Convenzione Europea dei Diritti Umani: moduli monotematici.
Il prossimo 24 aprile, presso la Sala Seminari della Cassa Nazionale Forense, si terrà il secondo incontro del nuovo “Corso di specializzazione sulla convenzione europea dei diritti umani”, organizzato dall’Unione forense per la tutela dei diritti umani (UFTDU) con il patrocinio del Consiglio d’Europa di Venezia, che si articolerà in sei distinti moduli tematici della durata di sei ore ciascuno. Questo secondo modulo avrà ad oggetto il processo dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo e vedrà la partecipazione dell’Avv. Maurizio De Stefano, membro del Comitato Direttivo dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani, dell’Avv. Alessandra Mari e dell’Avv. Andrea Saccucci, Professore di diritto internazionale presso la Seconda Università di Napoli. Il corso è destinato ad avvocati, magistrati, praticanti avvocati, laureandi in giurisprudenza, operatori del diritto, rappresentanti delle ONG specializzate nel settore dei diritti umani, funzionari della pubblica amministrazione e, in generale, dell’8 aprile 2015 tutti coloro che intendano conseguire una specializzazione nelle materie della CEDU. Le lezioni successive si terranno i prossimi 15 maggio, 22 maggio, 19 giugno e 3 luglio e prevedono un massimo di 80 partecipanti.